Una storia vincente: “Menico e Ada” di Monica Romagna
In giro per le città: i borghi di mare, la vita, gli amori
“Leggera come una farfalla”, di Monica Romagna.
Avvincente, dinamica, una vera e propria storia di vita, questa narrazione di Monica Romagna che ci dona un piccolo quadro di esistenze umane, ricreato in un'”inventio” letteraria elegante e vivace.
Si erano conosciuti in riviera: bionda, barista occasionale e ballerina di professione lei,
ubriaco già alle sei del pomeriggio lui. La brezza agitava l’orletto degli ombrelloni del Bagno
Raul e ogni particolare era al posto giusto per lo spumeggiante aperitivo vista mare. I
bagnanti iniziavano a risalire dalla spiaggia, chiacchierando di persone, cose, case e alberghi
e una bella gioventù arrivava dal viale a bordo di auto potenti. Reclamavano attenzione, con
gli occhiali da sole alzati sulla fronte abbronzata, i vestiti chiari su muscoli rifiniti in palestra,
gli abitini delle ragazze simili a sottovesti di seta, veri costumi di scena per la commedia del
venerdì sera. Tutti, come da copione scritto da chissà chi, avrebbero fatto del loro meglio per
divertirsi fino allo stordimento. Menico, appollaiato sullo sgabello in legno di teak,
beccheggiava come la polena di una nave, ma le aveva afferrato il polso rudemente quando
lei aveva rifiutato di preparargli un altro cocktail. Ada, senza neanche un sussulto, aveva
guardato la mano di lui e il Rolex che gli ornava il polso e, sorridendo, gli aveva assestato un
micidiale montante sotto il mento che lo aveva steso. Si era risvegliato con la testa sulle
ginocchia di lei. Fu amore a prima vista.
Seguirono anni intensi e fortunati. L’azienda di lui, cucine di qualità, andava a gonfie vele,
lei esprimeva la sua bravura in musical teatrali in giro per città e paesi dell’Emilia-Romagna.
Si incontravano negli alberghi di Reggio, Forlì, Imola, nella casa di Bologna di lui, addirittura
nella casa di Cesena di Ada, dove abitavano anche i genitori e lo “zione” Alfredo. Ed era
sempre amore, amore, che si esprimeva anche con un sesso sfrenato e passionale che non
conosceva stanchezze.
All’inizio degli anni novanta lui, timido e un po’ impacciato, le chiese di sposarlo. Ada
acconsentì chinando lievemente la testa elegante.
La bisboccia della sera prima con lo storico gruppo di amici aveva lasciato Menico intontito e
con un fastidioso pulsare di tempie. Ci avevano dato dentro, là, nella Cantina di Pinè, e niente
era stato tralasciato: né il vino, che sembrava non finire mai, nè le due spogliarelliste che
avevano fatto un numero degno delle Folies Bergère e della cifra che avevano preteso. Cena e
dopocena si erano svolte come da tradizione di ogni addio al celibato che si rispetti e il merito
era tutto di Folco e del Guizzo, che lui amava come fratelli.
Menico era in una bolla di felicità, ma ci mise parecchio ad annodare la cravatta di seta e
l’attraversamento della piazza assolata lo vide incerto e barcollante. Pensò che un gin and
tonic nel fresco del bar lo avrebbe rimesso in sesto.
Ada scese dalla Lamborghini e volse lo sguardo dolce su di lui che la aspettava ai piedi dello
scalone del municipio. Leggera come una farfalla, lo raggiunse e, con gli occhi velati dal
dispiacere, tirò appena indietro il capo dall’acconciatura raccolta.
La testata lo colpì nella parte alta del setto nasale facendolo stramazzare a terra in un
coreografico pavé di gocce di sangue.
Nella grande sala comunale gli sposi sedevano composti e sorridenti. Ada, emozionata,
pronunciò il suo sì e fu con mano ferma che lui le infilò la fede al dito guardandola con
adorazione. I cerotti sulla faccia pizzicavano appena e, appoggiando il braccio sottile di lei
sul suo, Menico pensò che la sfumatura violetta sulla fronte di Ada si fondeva, in un ricercato
accordo cromatico, con il lilla del prezioso abito. Era, come sempre, perfetta.