Le ragazze del Pratello di Monica Romagna
Una testimonianza di vita, una storia che, nonostante gli anni, potrebbe essere ancora attuale. La vita di studenti in un’altra città, la condivisione di uno spazio, le chiacchiere, lo studio; spesso non ci si accorge di quanto passi tra le parole: il disagio, i segreti, il malessere.
Il testo di Monica Romagna, scritto con lucidità ed eleganza, punta il faro sulla vita dei giovani, a volte disorientati, a volte sconfitti, delusi e rassegnati, disamorati della vita, quando la gente di città e la società in generale, pare non accorgersi di loro.
Monica Romagna
Le ragazze del Pratello
Sono passati quasi vent’anni, ma il giallo in tonalità mal di fegato di quella persiana spicca ancora sull’azzurro scrostato della palazzina. Un pugno nell’occhio adesso come allora, ma, d’altronde, ben contestualizzato in questa via dove niente sembra mutare nonostante la gente arrivi e parta in un flusso ininterrotto. Conosco poche persone che qua hanno messo radici, ma tanti che, come me, ci hanno passato solo qualche anno. Nessuno però si dimentica di aver abitato qui. Il Pratello ti lascia qualcosa dentro di cui solo il tempo e la distanza definiranno natura e contorni precisi. Io, per esempio, ancora non ce l’ho chiaro questo qualcosa, ma bisogna anche precisare che non riesco a essere lucida neanche su quel che successe qui all’epoca. Il resoconto dei fatti si può leggere in un ritaglio di giornale che ancora conservo nel mio vecchio manuale di anatomia, ma i particolari che emergono in quell’articolo sono come ombre riflesse su un muro e poco dicono dei personaggi che le hanno generate. Via del Pratello rievoca nel nome il passato campestre di questa zona di Bologna e adesso come allora “andare al Pratello” significa uscire fisicamente, ma anche mentalmente, dalla parte borghese del centro città per entrare in una zona di luci e di ombre. Via di ladri e ruffiani nel novecento, che qua svolgevano indisturbati i loro affari, adesso appare ricca di osterie nostrane che si affacciano sulla strada alternate a bar multietnici. Questa sorta di fusion gastronomica su base toponomastica è interrotta, a metà della via, da un ex convento intitolato ai santi Lodovico e Alessio che ospita il carcere minorile dove, guarda un po’, hanno dato vita a un’osteria formativa come progetto per i giovani detenuti. Eh, già, perché il luogo di cui sto parlando è stato anche prolifica culla di avanguardie cinematografiche e artistiche e qua sono nati, negli anni ‘70, cineclub culturali e le prime radio libere. Cultura, pensiero libero e quel po’ di trasgressione che attirano intellettuali e studenti. E anche un sacco di altra gente, evidentemente, visto che qua, certe sere, si fa fatica a passare dalla folla che c’è. La serranda, i cui decori a graffiti non riuscivano a nascondere la ruggine, mi aveva lasciata spiazzata. Eppure il numero civico corrispondeva. Da più di un mese cercavo un alloggio a Bologna e avevo riposto molte speranze in quell’annuncio scritto a mano recuperato nella bacheca della sala studio. Niente numeri di telefono, ma un indirizzo e un nome, Patrizia. Ora, di fronte a quello che sembrava un negozio sfitto da anni, non sapevo proprio cosa fare e la vista di quei graffiti di colori mal assemblati mi riportava a una realtà sgradevole fatta di permanenza in famiglia e tragitti da pendolare. Ridicolmente vicina alle lacrime, quasi non sentii il richiamo proveniente da una finestra del secondo piano. Da un viso sorridente e capelli lunghi scuri, ciò che la miopia mi consentiva di scorgere guardando in su, arrivarono le istruzioni – gira l’angolo, apri il cancello, piano, sennò ti cade addosso, sali la scala interna- per accedere al luogo dei miei desideri. Sorrido ancora al ricordo, ma la referenza migliore per ottenere lo status di nuova inquilina l’aveva fornita il mio nome, Loretta. In capo a un quarto d’ora avevo scoperto che sarei stata la quinta dell’acrostico. Si, perchè Patrizia, Roberta, ATtilia, ELena e infine, la sottoscritta, LOrena, creavano la parola PRATELLO. -Vedi, il destino?- Io sinceramente, parecchio intimidita, vedevo solo un eccesso di teatralità in quelle quattro ragazze che mi avevano accolta, soprattutto in Roberta che, studentessa del DAMS, era vestita come una novella Otero, collane di perle comprese. Ancora non lo sapevo, ma il senso di appartenenza, il calore del gruppo, il valore altissimo dell’amicizia che avrei sperimentato in quegli anni avrebbe finito per rappresentare una delle colonne portanti della mia esistenza, nonostante il lutto e nonostante il dolore. Mi comunicarono che sarei stata l’unica ad avere la stanza singola, – Mi dispiaceva? Certo che no- le altre si dividevano le due grandi stanze in fondo al corridoio, poi c’era la cucina, enorme, che serviva spesso da sala studio – libri, fogli, cancelleria, bicchieri e piattini su un tavolo pieno di graffi e ghirigori – e infine il bagno con la vasca che ne occupava quasi tutto lo spazio. Fine del giro turistico. Avevo trovato casa a Bologna. Evviva. Ricordo che mancava poco più di una settimana a Pasqua, sia io che Attilia avevamo un esame quella mattina e il fatto che Roberta non si fosse presentata al rituale scaramantico della colazione – torta del fornaio e caffè americano per tutte – non aveva stupito più di tanto né me né le altre. Roberta seguiva ritmi e orari propri, il suo arrivo era sempre segnato dall’allegro tintinnare della chincaglieria che si portava addosso e da bacetti e abbracci che dispensava a profusione, ma a volte rimaneva fuori anche per qualche giorno, regalando ad Attilia, che divideva la stanza con lei, un po’ di silenzio e tranquillità. Le volevo molto bene e adoravo la sua esuberanza, che all’inizio mi aveva messo a disagio, ma l’esame che dovevo sostenere e il docente che aveva condotto il corso erano di quelli che alimentavano le leggende d’ateneo per cui feci poco caso a chi c’era intorno al tavolo. Passai tutta la giornata all’università e tornai a casa di cattivo umore, stanca e inasprita perché quell’infame mi aveva dato un voto molto al di sotto delle mie aspettative condendolo anche con un atteggiamento di paternalistica magnanimità. A cena eravamo solo in tre, Attilia era uscita con un amico e Roberta era ancora latitante. Elena e Patrizia stavano facendo del loro meglio per tirarmi su il morale, che era definitivamente precipitato dopo la telefonata di lagne e rimproveri di mia madre, quando bussarono alla porta. Fiba, la nostra dirimpettaia giamaicana, ci aveva riportato Patatrac. La vista di quella palla di pelo tutta arruffata e sporca fece scendere un silenzio attonito nel corridoio con la porta ancora aperta. Il gatto Patatrac viveva nel nostro appartamento, coccolato, vezzeggiato e, soprattutto, nutrito da tutte, ma era, di fatto, il gatto di Roberta. Lei non si separava praticamente mai da quel felino egoista e opportunista e se lo tirava dietro in un trasportino ogni volta che si assentava sostenendo che era il suo animale-anima. Patatrac era in uno stato pietoso, proprio lui che, per spazzole dedicate e vita comoda, esibiva sempre una pelliccia curatissima. Fiba lo aveva trovato poco prima in un angolo del sottoscala e ce lo aveva subito riportato perché le sembrava ferito. Congedammo la vicina ringraziandola e, sempre in silenzio, ritornammo in cucina. Elena prese un panno umido e io rovesciai una scatoletta nella ciotola blu del micio. – Non le sarà successo niente! – sbottò Patrizia in quella caligine di angoscia che andava aumentando – Roberta è un incrocio tra una zingara e un’attrice da operetta. Starà declamando versi in qualche buco da osteria beata di essere al centro dell’attenzione. Le parole, apparentemente denigratorie, cercavano di tacitare supposizioni spaventose sulla sorte della nostra amica. Realizzai che di Roberta, in fondo, sapevo poco. Mi stavo rendendo conto, con sgomento e senso di colpa, che le sue chiacchiere continue riuscivano a eludere abilmente domande personali. Era bello confidarsi con lei, le avevo parlato dei problemi con mia madre, della mia insicurezza, sembrava comprendere e trovava sempre le parole giuste con tutti, ma non sapevo nulla della sua famiglia e non avevo mai visto i suoi amici. Passai una notte inquieta e mi alzai poco dopo le sei del mattino. Il suono del campanello del portone di sotto mi fece sobbalzare e rovesciai il mio caffè solitario. Il disappunto stizzito con cui mi sporsi dalla finestra si tramutò in una morsa di gelo: di sotto c’erano tre uomini in divisa da carabiniere. Mentre i tre militari salivano le scale chiamai le ragazze ed evidentemente fu quasi un urlo perché Patrizia ed Elena accorsero in pigiama e scarmigliate, ma con il panico nello sguardo. Agitatissime, ormai convinte che fosse successo qualcosa di grave, quasi abbracciate sul bordo del pianerottolo, non eravamo comunque preparate a quello che ci stavano chiedendo. Accortosi del nostro sguardo spaesato, dopo aver scambiato un’occhiata con i colleghi, il carabiniere ripeté la domanda : – Abita qui Attilia Levante?- Ritornammo a casa dopo ore passate in caserma a rispondere a domande nel tentativo di ricostruire con i carabinieri un quadro fatto di tanti particolari, piccoli pezzi che delineavano una brutta storia che eravamo state incapaci di vedere. Una di noi, però, aveva intuito qualcosa, era stata più sveglia, meno presa da se stessa e da banali storie di quotidianità. Attilia aveva letto tra le righe del continuo cicaleccio di Roberta, ne aveva percepito la solitudine, aveva guardato oltre la mascherata e aveva indagato, tacendo tutto alle altre. Si era mossa, incautamente, per salvare qualcuno che, forse, non voleva essere salvato. Non lo sapremo mai. Di quel che successe in una delle ultime case di via del Pratello sentimmo solo il resoconto dei carabinieri che a loro volta avevano raccolto il racconto confuso e spaventato di un ragazzo dei collettivi. Era lui che, per pochi soldi, aveva portato Attilia di fronte a quel palazzotto insospettabile. Elena lo aveva riconosciuto da alcune foto segnaletiche. Probabilmente neanche il ragazzo era pienamente consapevole del pericolo che stava correndo la nostra amica, aveva anche lui vaghe informazioni. Di fatto, in quell’appartamento arredato con lusso c’era un giro di droga e prostituzione conosciuto da pochi clienti estremamente facoltosi. Le ragazze erano giovani, italiane e straniere, istruite, quasi tutte studentesse fuori sede. Non si sapeva chi dirigeva il gioco perché sul posto rimanevano solo due “protettori”, pesci piccoli, ma minacciosi che si occupavano di ritirare l’incasso dalle ragazze e fornivano le sostanze stupefacenti. Urla e spari avevano indotto i vicini a chiamare i carabinieri e gli uomini della volante le avevano trovate così : Roberta sul pavimento, con lo sguardo vuoto, che stringeva tra le braccia Attilia, con il vestito imbrattato di sangue. Le avevano sparato in pieno petto ed erano scappati. I carabinieri stavano interrogando Roberta da ore quando erano arrivati al nostro indirizzo. Mentre Elena puliva la pelliccia di Patatrac, la nostra bella Otero faceva i pochi nomi di cui era al corrente e raccontava la sua doppia vita che era costata la vita ad Attilia. In caserma non la incontrammo e, in seguito, non la vedemmo più. A volte mi sono ritrovata assurdamente a pensare che le foto sul giornale non riuscirono mai a rendere giustizia alla sua bellezza. Pochi mesi dopo il nostro gruppo di tre sopravvissute si divise nelle strade della vita. Qualche augurio a Natale e poi più niente. Il congresso di oculistica mi ha riportato a Bologna e questa passeggiata senza meta, non so come, mi ha condotto qui. Sta per piovere, piove sempre vicino a Pasqua, meglio che torni in albergo. Affretto il passo e non mi accorgo che qualcuno, dietro le tende del secondo piano, mi sta guardando andare via