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Sul confine

Questa emergenza sanitaria ci ha costretto a tracciare confini netti e precisi tra gli stati, ha ripristinato desuete barriere fisiche (ma soprattutto mentali) tra un territorio e un altro, tra gli individui e tra i corpi, tra il nostro corpo e un altro minuscolo organismo, una proteina unicellulare che potrebbe installarsi nel nostro complesso e mirabile organismo umano come un programma perverso in grado di inceppare i nostri delicati meccanismi.
Confini con filo spinato invisibile sono stati ridefiniti, le frontiere dei paesi sigillate e siamo costretti a mantenere a debita distanza i nostri corpi, divenuti fortezze inaccessibili. Ci è rimasta solo la rete che tutto avvolge come la tela di un magnifico ragno materno che ci assicura una connessione infinita, prettamente virtuale.
La parola confine richiama il concetto di alterità, di diverso da me e implicitamente quello della mia identità che si definisce per contrapposizione, in un gioco di opposizione tra dentro e fuori, tra amico e nemico.
Ma il confine è solo un’idea effimera labile e illusoria. Il confine non è che la zona di contatto tra due mondi e quel filo immaginario che delimita la linea di demarcazione tra due territori o due corpi, poco importa, ci racconta della sua appartenenza ad entrambi.
E il confine è un limite e come tale superabile, linea fra due mondi che si toccano, membrana forse permeabile che permette il passaggio dall’uno all’altro. Oppure fantastico punto di svolta, fine di un percorso e inizio di un altro inusuale, una morte e una rinascita altrove.
E non esiste limite che non porti in sé una piccola breccia, crepa destinata ad allargarsi, che scardina difese inopportune e contamina puro e impuro e irrompe nell’al di là, nella zona proibita.
Daniela

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