Tutto capita d’imrovviso: Lidia e Bianca. Due storie vere.
Tutto capita d’imrovviso, la rubrica del martedì!
…Ma a me verrebbe da dire che tutto capita attraverso la consapevolezza che noi donne maturiamo riguardo ai diritti professionali; noi donne, come gli uomini, meritiamo nel lavoro considerazione, rispetto, opportunità di crescita. Bianca, leggerete infatti nel racconto proposto oggi, agli esordi della sua professione di avvocato, si è trovata in una situazione incresciosa che le ha fatto prendere una decisione solenne
Ecco lo scritto di S.
Torino anno 1883
“Le donne possono fare le insegnanti o i medici ma, in questo caso, si tratta di attribuzioni che, per la loro indole ed entità, sono ben diverse da quelle che riassumono il patrocinio per cui è indispensabile un mandato nobile quanto arduo che, per compierlo, a dovere, richiede robusto impegno, ampiezza di dottrina, laboriosità indefessa”, così si esprimeva il Procuratore Generale del re per motivare la sua impugnazione all’iscrizione all’albo degli avvocati di Torino della prima avvocata d’Italia, Lidia Poet, nel 1883. Lidia a seguito di quell’opposizione fu quindi esclusa dall’avvocatura e cancellata dall’albo torinese, e costretta ad una attività professionale forense “clandestina” fino al 1919, anno in cui verrà finalmente riabilitata nella sua legittima professione a cui aveva meritatamente aspirato in tutta la sua vita, conclusasi all’età di 94 anni.
Padova anno
aveVa del 1982, Bianca ha solo 27 anni, è da poco divenuta procuratrice legale e può quindi patrocinare nei giudizi sino al secondo grado. Bianca è fiera di aver superato l’esame, non certo facile, di procuratore legale, e di esercitare quella professione che tanto agognava ma che la sua famiglia non ha mai appoggiato granché, preferendole tutt’al più una carriera impiegatizia, più compatibile con un futuro ruolo di moglie e madre. Ma Bianca vuole fare l’avvocato e vuole occuparsi di un ramo particolare del diritto, quello che ha a che fare con il contenzioso con la pubblica amministrazione, con lo Stato, e che per lo più vede il cittadino doversi difendere dal potere pubblico. Spesso ricorda a sé stessa quello che il suo “maestro”, il suo dominus, di tirocinio le diceva negli anni della pratica legale: “ricorda che i cittadini non sono sudditi”, che “i giudici sono per lo più avvocati mancati, perché sono quest’ultimi che li conducono, con le loro difese, le loro prove, le loro tesi, le loro deduzioni, a prendere le decisioni”.
Bianca si sta preparando ad affrontare un processo importante, caratterizzato da questioni spinose e piuttosto nuove: una causa promossa in realtà da un ‘povero cristo’ contro un’amministrazione ministeriale, che da tempo lo sta vessando in modo particolare e forse in modo non proprio legittimo. E sa che sarà dura, che il collegio giudicante è un “osso duro” e lo è soprattutto il presidente, noto per la sua misoginia e prepotenza, ma ci vuole provare lo stesso a far passare le sue tesi e a fare del suo meglio.
E infatti quella mattina, con la sua toga sulle spalle, entra nell’aula e saluta deferente l’intero collegio; da subito vede che i cinque giudici, tutti maschi, neppure la guardano in volto e che l’unica voce che risuona è quella del presidente che le chiede soltanto se ha qualcosa da aggiungere a quanto già esposto per iscritto: Bianca risponde di sì, che intende replicare a quanto affermato dalla controparte. E subito vede profilarsi da parte di lui una specie di smorfia di fastidio. Ma è solo l’inizio.
Bianca comincia a esporre le sue controdeduzioni e subito quell’uomo la interrompe, le rivolge le prime obbiezioni, mentre lei riprende paziente la sua esposizione; ma lui la interrompe più e più volte, la contrasta, sbuffa, ride, la deride, la aggredisce verbalmente con argomentazioni contrarie e oppositive continue, la schiaccia dall’alto del suo ruolo e le impedisce di proseguire; allora lei si ferma per un attimo. Bianca capisce che la tratta così perché è una donna e la considera inferiore, che non rispetta il suo ruolo e non vuole assolutamente riconoscerlo e dalla rabbia inizia a piangere senza una lacrima e riprende a parlare con un singulto continuo che le fa uscire suoni verbali tremanti e sofferenti, dolorosi come ferite di lama sulla pelle. Nessuno la guarda in viso mentre lei continua a singhiozzare, a far uscire una voce acuta rotta da un pianto invisibile, ma nessuno la interrompe, nessuno le chiede se vuole sospendere per qualche minuto, se ce la fa a continuare, meno che meno se sta bene, e non si capisce se è per indifferenza, misogenia o vigliaccheria e deferenza verso chi la sta umiliando, l’aggredisce e la mette in una condizione di inferiorità umiliante, discriminante e indecorosa.
Poco dopo Bianca con grande sforzo riesce dolorosamente a finire la sua difesa, poi raccoglie le sue carte, saluta, ed esce da quell’aula, nel corridoio, a piangere davvero, questa volta, con le lacrime vere e il naso che cola, dicendo a sé stessa che non dovrà mai più succedere, perché lei non permetterà mai più a nessuno di trattarla così. E così sarà nel corso della sua lunga carriera. Bianca cercherà sempre di farsi valere e di non consentire a nessuno, avvocato o giudice, cliente o persona qualsiasi, di mancarle di rispetto nella sua professione.
Negli anni 70-80 l’avvocatura femminile rappresentava all’incirca il 20-30% dell’intera classe forense. Le poche procuratrici e avvocate che si trovavano a lavorare con i colleghi maschi nei tribunali nazionali venivano chiamate spessissimo ‘signorine’, come le segretarie degli studi legali e spesso scambiate per quest’ultime; da sempre, e dunque anche oggi, guadagnano meno dei loro colleghi maschi, che vengono preferiti anche oggi dai clienti, i quali spesso le chiamano signore o al massimo dottoresse, e non avvocate o avvocatesse, come meritano. Solo dal 1990 hanno visto il riconoscimento dell’indennità di maternità da parte dello Stato, dopo il riconoscimento avvenuto per altre categorie di donne lavoratrici.