Di Nerina Garofalo
ll libro di Gianluca Veltri
A distanza di meno di due anni dalla lettura del precedente, e con alcuni giorni di atmosfere fra lacustri e montane passate a dirsi di libri con l’autore e con la sua famiglia, mi ritrovo a sentire e pensare con fra le mani un nuovo lavoro letterario di Gianluca Veltri.
Critico musicale e musicista, giornalista e scrittore, nella mia percezione arriva alla produzione di questi ultimi anni con due opere del tutto differenti, per atmosfera, respiro e impatto, pur essendo entrambe la testimonianza di una domanda ostinata sullo stare al mondo.
Nel primo libro, cha avevo commentato in giornate di bellezza silana, quando il Covid sembrava essere qualcosa che finisce, il lessico familiare e tutto quello che intorno ad esso si costruisce (in termini di relazioni, occasioni e affetti, e persino di resistenze ed urti) era stato consegnato alla letteratura come tentativo di abitare le assenze, e la finitezza, tramandando i significanti e i significati familiari e riallocandoli.
Sia nell’uso che li ha generati, sia nella memoria d’uso che abitiamo quando ne conserviamo la radice e lasciamo che si contamini e riaffiorare. Bellissimo lavoro di scavo, ma anche chiave di una persistenza meno dolorosa della persona nel mondo.
L’operazione potente, ne Le parole salvate era restituire a un significato collettivo qualcosa di così intimo come un lessico familiare. E alla fine del libro ti chiedevi di chi fossero, quelle parole salvate. Se le loro familiari, quelle dell’autore sopravvissuto a una perdita, le tue che ritornavano, prossime e disarmanti, leggendo.
Veniamo adesso a L’odore dell’arrivo, uscito sul finire del ’21 in virtù dell’incontro di Gianluca Veltri con l’Editore Ferrari.
Quando ho avuto finalmente il libro fra le mani, poco dopo l’estate, la connessione fra le sonorità delle cime e i solchi in vinile si è palesata come una cerimonia d’accoglienza fin dalla grafica, persino troppo esplicita, del libro. Sarà un incontro ricco di suoni, e sussurri, mi sono detta, e con questa sonorità assegnata al silenzio della lettura e delle pagine di carta (sia pur anch’esse fruscianti), mi son addentrata nel testo.
Così come le analogie e le distanze fra suono naturale e suono riprodotto (potremmo dire fra esistenza e narrazione?) sono arrivate da sole prima d’essere cercate, così anche quel titolo introduceva in me un doppio significato possibile. Si arriva là dove sapevamo o meno di voler e poter ed essere infine andati, o si arriva per partire, posizionarsi e da lì a vivere? La duplice domanda si è insediata nella lettura (come accade per ogni buon titolo), e non mi ha abbandonata.
Il romanzo di Gianluca Veltri, non me ne voglia Gianluca, ha sullo sfondo l’altopiano silano in mondo fondante ma anche assolutamente incidentale. Per tutto il tempo di lettura riecheggiavano in me atmosfere del romanzo americano, e quelle cime assumevano i tratti delle foreste canadesi, di qualsivoglia radura nella quale si sia andati in bicicletta per la prima volta. Stand by me. Qui metto un solco mio. Un dolce domani.
Ho cancellato il nome dell’altopiano dalla mia biografia, e da quella dell’autore, ed ho letto il libro di un autore che mi ha sorpresa e ricondotta nel non luogo dei luoghi che siamo. In pelle, ossa ed emozioni.
Non ci sono che luoghi dell’anima, in questo libro, che ha un respiro molto ampio, che ti libera i polmoni come un approdo in altezza. Quando arrivi in montagna senti due cose: che respiri in un altro modo e che hai fame. Ed io, leggendo, avevo fame. Di andare avanti e capire dove fosse che arrivavo, che arrivava, il protagonista. Se saremmo arrivati insieme per rimanere, infine, in un luogo della mente, o del cuore, o se saremmo arrivati, scrittore e lettrice, per andare.
C’è tanta musica nel libro, che si consegna accompagnato da una serie di audiocassette virtuali, come facevamo da ragazzi noi nati fra il 60 e il 70. Nel ‘900 insomma. Arriva con la sua narrazione esatta, che basta a se stessa, e che con accanto quel gesto (ascolta questo con me), diventa ancora qualcosa d’altro, si apre, si amplifica. E pur essendo così intrisa di 900, la narrazione di Gianluca è perdutamente consegnata all’oggi, al secolo della sperdutezza, della salvaguardia in incanto.
Così ci si difende oggi dall’inconsistenza dei paradigmi, con un incanto che non finisce, come la pedalata fiduciosa in avanti dopo quella protetta e arrischiante all’indietro, con la certezza dell’incertezza sfidata, una volta per tutte.
Mi sembra si racconti come un libro di racconti, in piccola parte editi in precedenza ma io, in verità, l’ho letto come un romanzo. Come si legge il Giovane Holden, come si guarda Noi siamo infinito. Se racconti sono, e non si dicono romanzo, è perché forse al racconto ci condanna questo millennio. Ma una serie di racconti è come una serie di respiri, non puoi leggerli slegati, non in questo libro, non in questo caso.
E’ un romanzo che paradossalmente, pur essendo “situato”, è il racconto di luoghi interni, di esperienze sentimentali. I primi pensieri sull’amore, sulla passione, sulla morte, le metafore sportive, la velocità delle corse. Scoprire che esiste l’altro, pur restando in qualche modo avvinti all’ascolto dei propri brani, del proprio ritmo, della storia che siamo.
Niente di autobiografico, molto di narrativo, di impalpabile. Come il vento mentre corri, su una bici, o mentre la vita te la toglie l’euforia di una moto che si impiglia nel cielo.
Ci sono, dentro il libro, molti ritratti in poche righe, preziosi. Una madre che si de-termina a non esserci, una donna che porta nei dialoghi del mattino la certezza delle bellezza che ci salverà. Alce nero, che attraversa vivo e fantasmatico il libro, e fa romanzo a sé. Io non credo ci sia molto Sud, in questo libro. Credo anzi ci sia molta America. E moltissimo amore per i luoghi dell’anima, che esistono nei luoghi reali, che sono quelli dove si arriva a volte per restare, a volte per ripartire.
Mettetelo in tasca, in borsa, sul comodino. E accendete la radio. Provate a sentire, sotto la musica, ogni singolo, prezioso, battito.
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