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Storie di vita: Salerno

Racconto di Lisa Manno Sforza
Breve introduzione di Marina Agostinacchio

Salerno rimane nella memoria dell’autrice nitida perché attraversata dalle emozioni e dai ricordi della sua infanzia. A rompere l’incantesimo di un mondo che assume le caratteristiche del magico, il trasferimento del padre della scrittrice a Milano…
Alla citta del mio cuore e della mia infanzia ho dedicato delle pagine dal mio primo romanzo pubblicato dal titolo “Il padre inventato” (1966).
Un omaggio alla città che più di tutte quelle dove ho vissuto mi è rimasta nel cuore, la mia Salerno!
Dei brani del mio primo romanzo pubblicato: il padre inventato.
Ricordi emozioni odori colori della città della mia infanzia, una delle più belle d ‘Italia, questa nostra patria che sta soffrendo ma che se resteremo uniti e ci aiuteremo e ci vorremo bene , riusciremo a traghettare fuori dalla crisi e a far riprendere su basi migliori , ricordandoci di essere grati a chi ha aiutato con il suo lavoro e il suo sacrificio, a chi ha condiviso i suoi medici e infermieri, a chi ci ha teso una mano nel suo piccolo come gli amici di là dal mare Albanesi, a chi ci è stato amico, non dimenticando l indifferenza dei nostri vicini oltre le Alpi, che invece hanno confermato per l’ ennesima volta, come la storia si ripeta, che amici nostri non sono mai stati !
Quando dopo il lungo interminabile trasferimento, lungo la penisola e lungo statali che servirono in parte poi al tracciato dell’autostrada del sole, la prima costruita in Italia nel dopoguerra, entrarono in città, la Fiat millecento blu notte, targata Salerno, procedette lentamente e un po’ a zig zag, e dopo essere scesi da un viadotto chiamato ponte della Ghisolfa si persero.
Era chiaro che papà, che non era mai stato un campione come guidatore e che allora era neopatentato, non sapesse dove andare, così le venne da pensare.
Era sera, le macchine sfrecciavano veloci e suonavano i clacson perché lui miope come era, intralciava il traffico con la sua guida incerta e lenta.
Non che allora ci fosse chissà che traffico a Milano, però era comunque un po’ caotico a causa della pessima viabilità e del fatto che già allora, c’era nell’aria una tensione, una sorta di energia negativa, un anticipo di nevrosi che iniziava ad affacciarsi alle porte di quella che allora era l’unica vera grande città italiana del Nord, Torino aveva mantenute di più le sue caratteristiche di ex capitale sabauda e di città di provincia.
Si raccontava che molti negozi avevano esposti dei cartelli con scritto: non si vende ai meridionali!
E noi adesso eravamo lì, eravamo emigrati al Nord!
Così pensò con stupore e angoscia. Aveva paura per l’ignota terra che avrebbe dovuto accoglierla e alla quale lei non si sentiva di appartenere…
Che tragedia, che lutto, che perdita, che rabbia!
Sui marciapiedi deserti di periferia, nemmeno un cane a cui chiedere indicazioni!
Quante macchine in questa città…, pensò, e ad ogni semaforo, non appena scattava il verde, suo padre si prendeva una impaziente strombazzata!
Inconcepibile!!!
A Salerno di macchine quando ci abitavano loro, ce n’erano veramente poche.
Si ricordò del maggiolino Volkswagen color aragosta, che serviva da auto di prova e che era del padre del suo amico/fidanzatino Giorgio. Il Sig. Mariano, era il titolare della prima concessionaria di un’auto straniera, tedesca per giunta, che quando passava, veniva guardata a bocca aperta come se fosse una strana creatura aliena.
Questo status gli permetteva di avere anche una casa riscaldata con delle grandi stufe elettriche, una per ogni stanza, e poi di abitare in uno dei pochi palazzi con l’ascensore.
Li gli ascensori erano bestie rare e per entrarci bisognava possedere la chiave come fossero una cassaforte e mettere dentro i soldi per la salita, gli altri, quasi tutti, le scale se le facevano a piedi , la sua famiglia e lei che avevano un appartamento al quarto piano da cui si vedeva uno spettacolare panorama del mare , se le facevano su e giù più volte al giorno …..
Che bello, che bella cosa la libertà che queste auto potevano significare e un domani ne avrebbe comprata una tutta sua e se ne sarebbe andata via anche lei, pensò.
…..Erano tutti , quelli che erano i residenti del rione, dignitosamente poveri , loro in particolare che appartenevano alla classe insegnante , erano comunque pur nelle ristrettezze del primo dopoguerra , i più agiati insieme ai commercianti, le macchine erano veramente poche allora e si viaggiava in treno in seconda o terza classe , ma si viaggiava solo per andare a trovare dei parenti che magari non vivevano li!
La mozzarella era una leccornia e si mangiava se qualcuno che lavorava dalle parti di Battipaglia, si faceva carico di portarne un po’ per i vicini che gliela ordinavano a turno. Al mercato si comprava il pesce azzurro, c’era solo quello , e sua madre era bravissima, ne faceva teglie deliziose, spinate e ricoperte di prezzemolo e pan grattato che lei portava giù al forno del padre della sua compagna di banco, ad infornare.
Il forno serviva tutto il rione, c’erano a volte lunghe code e due ore di attesa e questo era uno dei compiti che la mamma le affidava.
Allora erano proprio dei “Terroni”, come li definirono e apostrofarono per anni a Milano, e a lei di essere meridionale non le faceva senso perché era una situazione normale, non ci trovava nulla di strano o di umiliante anzi ne era fiera , lei adorava la sua città e il suo mare.
Allora neanche sapeva che si potessero definire e giudicare delle persone in blocco, così solo perché erano nate in un posto o abitavano una certa regione.
Lei non si sentiva salernitana per esempio, aveva la percezione solo di se stessa e del vento forte che spirava da settentrione in inverno e ululava nei vicoli o del profumo dell’ozono durante i temporali quando le prime gocce bagnavano il terreno polveroso delle strade. Aveva la percezione delle erbe spontanee dai mille odori, che crescevano nei prati intorno al rione, tra i ruderi dell’acquedotto medioevale. La percezione degli animali, dei cavalli, degli asini che tiravano i carri e i carretti degli ambulanti, dei gatti in particolare, che spesso figliavano cucciolate di randagini teneri e bellissimi che si sarebbe voluta portare tutti a casa, ma di cui non osava nemmeno parlare con suo padre!
Aveva la percezione del mare verde e profumato di alghe, dei cavalloni impetuosi che si frangevano sulla riva e trascinavano in un moto perpetuo i sassi dentro e fuori dalla battigia.
Del legno screpolato del remo del sandolino, che lasciava le conficcasse le sue spine nei palmi delle piccole mani, quando all’insaputa dei suoi genitori, era solita noleggiarne uno giù al porto. Già da quando aveva 5 anni se ne andava da sola a pagaiare fuori della scarpata di scogli che proteggeva il lungomare, lungo la linea del golfo prima delle catene delle ancore delle navi americane alla fonda, che si stagliavano in lontananza.
La percezione della montagna che aveva la forma di un gigante addormentato, che vedeva a ovest, dalla finestra, con il castello di Adelchi sulla cima. La percezione dei pipistrelli che uscivano al tramonto a frotte dalla vecchia chiesa abbandonata di fronte al balcone, o delle grandi navi americane alla fonda
nel golfo, che vedeva dal terrazzo, che ancora erano lì a proteggerli, così credeva, con i loro marinai neri ma vestiti di bianco che a volte sbarcavano e passeggiavano regalando le loro sigarette agli uomini.
Dei suoni delle zampogne che riempivano l’aria di musica quando si avvicinava il Natale e il cuore così si consolava e gioiva, anche se il freddo faceva venire i geloni alle mani e le labbra si screpolavano per il vento e sanguinavano.
Queste erano le percezioni che aveva, di essere, di esserci, con le rondini che a marzo già tornavano e che adorava seguire con lo sguardo nei loro cerchi nel cielo e ascoltare con le orecchie e il cuore la loro musica querula ed allegra.
Questo sapeva lei allora, non sapeva di essere una terrona o una salernitana, lei poi ! era nata oltretutto in Umbria , nel lettone della nonna Elena che invece era nata a Canosa, da antenati per metà Francesi e il cui capostipite era un Templare!
E fu così che pur essendo dei “terroni”, loro non arrivarono alla Stazione Centrale, come nell’immaginario collettivo è stato l’esodo dal Sud, con le povere valigie di cartone legate con lo spago!
Arrivarono in auto: una millecento blu, che alla fine suo padre comprò usata, e che si avventurò a guidare per tutta quella strada, lui, fresco di patente, professore di Filosofia e Storia, uomo colto e intellettuale, miope come una talpa ma ad onor del merito indubbiamente molto coraggioso!

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