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Racconti di vita: Guardare la vita attraverso gli occhi di Carmen

Storie vere
Testo di Carmen Grattacaso
Breve introduzione di Marina Agostinacchio

Guardare con gli occhi spalancati agli anni delli’infanzia!. E’ quello che sa fare mirabilmente Carmen con poche pennellate descrittive e introspettive, quando lascia che la memoria riemerga fluida al tocco di improvvise sensazioni; esse bussano alla porta in momenti di silenzio interiore, forse di bagliore apparso nel fare quotidiano.
Gli spiriti “eletti” sanno fare tesoro di esperienze, incontri, dettagli che agli occhi di molti passano perlopiù inosservati.
Ecco, per tutti noi oggi, la proposta di due brani di Carmen.
Buona lettura!

Quando i miei partivano con la piccola Lucianna, a casa veniva la mia nonna materna.
Minuta, i capelli grigi tenuti alti poco sopra la nuca con un numero indefinito di forcine, aveva storie di fatti antichi per ogni età e le raccontava mentre ci dava da mangiare.
Io riprendevo il mio ruolo di bambina. La nonna ci accudiva con tenerezza e amore. Ci cantava anche delle filastrocche. Tagliava la carne a pezzettini e li metteva su un cucchiaio. Così la mangiavamo io e C.
G., mangiava tagliandosi la carne per i fatti suoi, sentendosi autonomo.
Ogni tanto veniva il nonno, che però non dormiva a casa nostra. Se era inverno, si toglieva il cappello Borsalino e cominciava a chiedere: « A che ora si mangia?», oppure « Pare che s’è fatta l’ora di mangiare».
A tavola, il nonno beveva il vino rosso e iniziava a fare battute che io non capivo.

A casa venivano anche due suore.
La più vecchia si chiamava Suor Margherita, la più giovane, che non ci stava tanto col cervello, suor Mariella.
Suor Margherita, appena vedeva noi bambini, sorrideva e passava oltre, andando nella cucina.
Mamma, a volte, la metteva a sbucciare piselli.
Quando entravo in cucina, appena sveglia, mi veniva un colpo nel vedere quel vestito nero e lungo, il velo ancora più nero, e la faccia di suor Margherita. Passavo dalla paura al chiedermi dove avrei fatto colazione.
Allora mamma faceva spazio sul tavolo della cucina.
Lei mi osservava con una faccia strana, come se avesse fame. Mamma, allora, le offriva un altro caffè, questa volta con un po’ di latte e biscotti.
Suor Mariella, invece, arrivava col suo passo sgraziato, e, senza nemmeno salutare, si avviava in cucina, dove si sedeva subito, stanchissima, tirando un lungo sospiro simile a un lamento.
Appena vedeva uno di noi, iniziava a ridere senza ragione, come se la risata potesse supplire al saluto condiviso di buona educazione. Chiedeva subito a mamma di darle qualcosa da mangiare, aveva sempre fame, poi guardava noi e continuava a ridere.
Sembrava invidiare i bambini, i loro giochi e la loro innocenza.
Probabilmente, poverina, non aveva mai giocato in vita sua.
Si alzava, apriva il frigorifero e controllava quali alimenti ci fossero, poi ne prendeva uno a caso e, dopo, diceva sempre a mia mamma« Signo’ me piglie natu poc e latte!».
Mia madre, in quel periodo, era quasi una santa con queste persone, e faceva tutto quello che le veniva chiesto.
Quando suor Mariella veniva nella «casavecchia», andavo a nascondere il mio bambolotto Mario. Appena suor Mariella se ne andava, aprivo l’armadio e dicevo: «Se n’è andata, Mariolino. Puoi uscire». Lo abbracciavo forte, come fosse un vero bambino.
Suor Mariella mi lasciava sempre stranita e triste, come tutte le persone di cui coglievo atteggiamenti, gesti e parole fuori luogo, persone che parevano vivere in una dimensione diversa.

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