Patrizia Anconetani ci presenta un testo, offerto anche attraverso la sua voce,dove il regno della fantasia aiuta a crescere e le battaglie della vita restano pazienti in attesa.
Mi sono chiesta, leggendo questo brano di Patrizia, dove sia l’atto di disobbedienza ospite fisso, in questo trimestre, della rubrica del martedì. Ebbene, credo che sia la fuga dalle mansioni quotidiane per essermi potuta concedere un ritorno nel passato!
Vieni con me, entra nel racconto, torna bambina.
Marina
Dalle stelle alle stelle
Di Patrizia Anconetani
Spazio 1999. Eccola la, la dottoressa Helen Russel, il mio primo mito e riferimento, un personaggio di fantasia che mi ha fatto compagnia a lungo, come una sorta di amichetta immaginaria. Aspettavo l’ora in cui la serie veniva proiettata come il più ambito dei doni e per anni a Natale la richiesta era la stessa: i libri fotografici della saga. Scartavo il pacco sotto l’albero e tutto scompariva, restavamo solo io, le foto e la fantasia che partiva al galoppo.
Si muoveva quasi a scatti, un corpo appena femminile, caschetto biondo e grandi occhi azzurri, zigomi alti e lineamenti nordici, le labbra sottili facevano sembrare strano il raro sorriso che appariva quando si trovava con l’amato capitano John Koening ed il collega Victor. Essere medico in un film del futuro oggi datato, in una base spaziale attaccata ad una zattera di luna a spasso per l’Universo non doveva essere facile, infatti le capitavano avventure di ogni tipo.
Avevo studiato il personaggio con una cura quasi “da grande”, imparato alcune battute “capitano ..le funzioni vitali si sono interrotte”, sguardo fisso, voce grave, corpo pressochè immobile.
Avevo messo su un’organizzazione complessa, con le amiche ci si trovava a casa, la nostra Base Alpha, ognuna aveva il suo personaggio e praticamente avevamo ricostruito il set, abbiamo dovuto reclutare anche qualche maschio, riluttante all’inizio, poi quando hanno capito che lì ci si divertiva, era un mondo a parte, facevano a gara per esserci.
Inventavamo storie, creavamo piccole scenografie, costruivamo oggetti. La lana della nonna di Antonella diventava il cavo per l’elettroshock, la sedia a dondolo in vimini il lettino dell’ambulatorio per la regressione e l’ipnosi.
Disegnavamo le storie inventate in forma di fumetti usando i pennarelli per evidenziare con linee sottili i bordi delle figure e renderli rilevati, in quaderni piccoli o su fogli staccati. A pensarci ora mi dico che molte delle cose che ci sono oggi, che si rompono nemmeno a guardarle, non esistevano ma noi ci arrangiavamo con quello che c’era.
Nel secondo piano del mio palazzo abitava una famiglia di venditori che aveva banchi a mercati ed un deposito. Il paradiso per me e per le mie amiche. Uno stanzone, forse perchè areavamo piccole noi ma lo ricordo come un luogo misterioso, gigantesco, poco illuminato, morbido, colorato.
Avevamo bisogno di divise che ci facessero davvero sentire medici, piloti, tecnici di strumentazioni (i computer non esistevano ancora ma nella serie avevano già previsto qualcosa di simile, schermi e bottoni che rimandavano a funzioni, comunicazione visiva..insomma il futuro che oggi è passato).
La dimensione del tempo.
La dottoressa Helen Russel, così come gli abitanti della base, indossava una tuta pigiama grigia, bruttina e molto semplice, con un taschino appena accennato su ogni fianco, il pantalone terminava a zampa d’elefante (eravamo pur sempre negli anni 80). Giravamo per questo deposito senza tempo, senza scadenze, i nostri genitori erano tranquilli, e noi trovavamo abiti di scena come nel guardaroba di un grande teatro, ci mettevamo addosso di tutto, diventando tutto quello che volevamo per il tempo che ci serviva, ballerine, poliziotte e spie, vecchie signore e mamme affannate, maestre dalla penna rossa, viaggiatrici ed avventuriere, scrittrici in abiti lunghi e scarpe di vernice, con lo sguardo perso nel vuoto e la mente a costruire trame.
Lì in mezzo avevo trovato un vestito grigio come metallizzato dalla linea rigida, lungo fin sotto il ginocchio, le spalline rinforzate che mi rendevano più matura della mia età di appena adolescente con un corpo senza forme. Era la mia divisa, lì dentro diventavo a tutti gli effetti il mio personaggio, potevo cercare di capire i sintomi, fare diagnosi, guarire da temibili virus spaziali, costruire e sperimentare farmaci.
La fantasia era e continua ad essere, la mia amica fidata, l’angolo tranquillo, turbolento, mai spaventoso, nel quale i ricordi si ritrovano e i sogni si costruiscono, il mondo a mia misura nel quale tutto è possibile e non ci sono ricchi né poveri, sei quello che vuoi, costruisci quello che ti serve e immagini scenari che abiti.
I nostri pomeriggi erano pieni di tutto, idee, progetti, prove, messe in scena, improvvisazione, materiali prodotti e rielaborati, storie.
Ci divertivamo un sacco e questo era il succo, facevamo prove di quello che saremmo diventate e nemmeno ce ne rendevamo conto.
Nel nostro lessico non c’erano parolacce e tanti termini che sento oggi, e non per fare la vecchia nostalgica, ma così era.
Anche l’amore era qualcosa su cui sognare, fatto di ipotesi di incontri, immaginato e forse, certo, troppo idealizzato, il mio di certo poteva venire solo dalle stelle.
Così ora mi dico che la mia prima maestra di vita fuori dalla famiglia e dalla scuola non esisteva e l’ho resa concreta con il gioco e l’amicizia, è rimasta lì nelle pieghe del pensiero come un canale acceso da guardare mentre si vive la vita vera.
Non c’erano i telefonini, c’era un telefono attaccato al muro, grigio di casa e da cui tutti potevano ascoltare, e i segreti lo erano davvero perchè si raccontavano vicini vicini attenti a non farsi sentire, non c’erano emoticon ma emozioni che ti si leggevano in faccia, e la parola “virtuale” non esisteva. Esisteva la parola “virtù” e su quella si lavorava parecchio perchè le virtù costruivano il carattere e andavano coltivate come un orto protetto dalle intemperie, il freddo, il sole cocente e le grandinate.
Ci sono state tante altre figure, vere, vissute o conosciute da lontano, che hanno guidato in direzioni ben più concrete, la mia vita, ma questa dottoressa in un tempo che sembrava il futuro lontanissimo ed ora è passato remoto, il momento che precedeva l’arrivo del terzo millennio, i viaggi spaziali e la vita fuori dall’atmosfera, mi ha fatto compagnia e in qualche modo le voglio bene.
Oggi lavoro con i bambini, passo con loro tanto tempo, li vedo giocare, imparare, crescere. E mi dico che, telefonino o non, sono la parte bella dell’umanità, quella che luccica. Luccicano gli occhi pieni di lacrime a volte e luccica lo sguardo quando nasce un’idea, sono passati tanti anni ma nulla è cambiato in fondo, e per fortuna. Fanno banda, inventano codici, costruiscono quadernini colorati e ci scrivono segreti, si reggono tenendosi per mano, ora per fortuna dopo l’orrendo periodo Covid si ricomincia a tenersi per mano, si siedono in dieci su una panchina, parlano di personaggi, eroi, anime, fate.
Anni fa una classe aveva inventato un camper fatto con uno scatolone, lo trattavano come fanno i mariti con le automobili, aveva le finestre, le ruote erano i piedi dei proprietari, il volante, un tettuccio e facevano anche benzina finta, inventavano viaggi e offrivano passaggi.
Non sono diventata un medico, ad un certo punto ci sono andata molto vicina, mentre i miei amici chiedevano il motorino io mi sono fatta regalare un telescopio, ma questa è un’altra storia.
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