Mi sei tornata in mente all’ improvviso
dalla raccolta Prima dell’alba e subito dopo (Perrone, 2010)
Di Rosalia Messina
Mi sei tornata in mente all’improvviso, l’altra sera. Da tempo non mi accadeva di pensare a te. Chi l’avrebbe detto, quando ci vedevamo ogni giorno e dividevamo tutto. Inseparabili, dicevano di noi. Ne ridevamo. In molti ci credevano fidanzati; ma non c’era mai stato quel tipo di rapporto che il nostro continuo cercarci lasciava immaginare. E quello che invece eravamo, insieme e uno per l’altra, sarebbe stato difficilmente comprensibile da parte di chiunque. Non c’era fatto minuto, emozione, idea che non volessi raccontarti; su ogni cosa che mi riguardasse mi premeva sapere il tuo pensiero. E di ogni cosa che ti accadeva ero partecipe prima che ogni altro. Già, chi avrebbe detto che sarebbe venuto un tempo in cui per mesi il pensiero di te non mi avrebbe nemmeno sfiorato la mente? Chissà come funziona la tua memoria di me, se mi pensi di tanto in tanto, o mai, se da anni nessun colore, profumo, verso di poesia, paesaggio, nota di canzone ti rimanda a quei giorni, o se invece qualcuna delle sensazioni che nascono dalle piccole cose non si porta dietro tutti i sapori dimenticati di quando avevamo quindici, e poi sedici, diciassette, diciott’anni. Marzia e Luca, Luca e Marzia, un’endiadi. Venivamo sempre nominati insieme, che si trattasse di essere invitati a una festa o di essere coinvolti in un gruppo di studio. E il cineforum, ricordi? Mai che ci siamo andati ciascuno per conto suo. Neppure avevo bisogno di telefonarti per dire passo a prenderti, venivo sotto casa tua in orario e suonavo il citofono. Scendo, dicevi, senza domandare chi fosse. Arrivavi giù sempre un po’ trafelata, mi baciavi su una guancia e riprendevi a parlare subito da dove avevamo interrotto poche ore prima, usciti da scuola. Io ero più lento, non ti seguivo subito; tu ridevi, dai, Luca, sveglia! Sei sempre stata più in gamba di me, in tutto; ma non mi importava. L’unica cosa in cui ero più bravo di te era il disegno. In cantina, a casa dei miei, c’è ancora una grossa scatola di cartone piena di schizzi a carboncino. I tuoi ritratti sono almeno trenta, c’è anche una caricatura, praticamente solo occhi enormi sormontati da un covone di ricci scuri, ma sfido chiunque a non riconoscere la tua faccia adolescente.
Ogni tanto uno di noi due si innamorava di qualcuno. Durava sempre poco. Gli amori adolescenti reclamano assiduità, esclusività, condivisione privilegiata, non tollerano presenze ingombranti nella vita dell’amato. Difficile dire perché non ci siamo innamorati. Non è che non mi piacessi abbastanza; non so come fosse per te, so soltanto che non avrei saputo vivere che come vivevo, e che tu facevi parte della mia giornata come ne faceva parte lavarsi i denti, andare a scuola, ritirarsi a casa la sera. Non desideravo niente di più e niente di meno, e di nessun altro rapporto umano mi è mai riuscito di dire altrettanto. Forse è stato per questo che non siamo diventati una coppia. Troppo rassicuranti, e prevedibili, e quasi anestetici io per te e tu per me. Niente batticuori, niente ansie. C’eri, semplicemente. C’ero. Specchi che si fronteggiavano da due pareti opposte, vicine ma destinate a non toccarsi mai.
Dopo la maturità – ovviamente a pieni voti la tua, mediocre la mia – andammo al mare ogni giorno, sulla mia Vespa sgangherata. Parlavamo dell’Università, tu già fermamente decisa ad iscriverti a Medicina, io ancora nelle secche di una scelta alla quale non riuscivo a dare importanza. Quando infine mi orientai verso Giurisprudenza, senza troppa convinzione, ti mettesti a ridere. Risi anch’io, il futuro aveva contorni incerti, sfocati. L’estate scivolò via, iniziarono i corsi universitari. Non vederti ogni giorno mi pareva impossibile, eppure avvenne.
Ti cercavo con cadenze all’incirca settimanali. Ci raccontavamo le novità, mangiavamo un panino, la sera si andava al cinema. Ci misi un po’ ad accorgermi che non eri mai tu a telefonare, mai che passassi da casa mia. Un giorno te lo dissi. Il tuo sguardo diretto, la tua voce chiara: ti eri innamorata, dicesti, eri molto presa dai tuoi studi. Non aggiungesti che mi volevi sempre bene, forse non ce lo siamo mai detto, quel bene che ci volevamo.
Finimmo per sentirci sempre meno. Ti facevo gli auguri per il compleanno; tu, del mio, ti dimenticavi. Mi presentasti il tuo fidanzato, Piero-Luca-piacere, dopo un’occhiata in tralice ebbe cura di non incrociare più il mio sguardo, e attese imbronciato che l’incontro finisse. Volevate sposarvi appena possibile, dicesti, anche tu cercando inutilmente il suo sguardo, irremovibilmente impegnato a oltrepassarmi.
Di lì a pochi mesi piantai gli studi, trovai un lavoro di ripiego – il primo di una serie – e mi dedicai all’unica cosa che mi avesse mai appassionato: dipingere.
Come fu che smisi di cercarti? Nessuna ragione precisa. No, l’ostilità passiva del tipo che volevi sposare non avrebbe costituito una ragione sufficiente; eravamo noi a non essere più noi. Ormai ci incontravamo solo per caso, scambiavamo due chiacchiere stente, convenzionali. Tornavi tutte le estati e a Natale da Aviano, dove lavoravi al centro oncologico; non mi cercavi, se capitava che ci incrociassimo per strada mi facevi festa, e ci raccontavamo le novità. Nessun progetto di vedersi per poter parlare un po’ distesamente, solo dialoghi veloci resi possibili dal caso.
Ti rividi al ventennale della maturità. Chi poteva organizzare una riunione all’insegna dell’amarcord, se non la Riccia? Anna la Riccia e Anna la Liscia, come le chiamavamo, erano ancora, loro sì, inseparabili. Si erano sposate a un mese di distanza l’una dall’altra, in modo che la prima a convolare a nozze facesse in tempo a tornare dalla luna di miele per partecipare alle nozze dell’altra. Avevano fatto tutto allo stesso ritmo, diceva la Liscia ridendo, anche i figli. Eravamo ancora tutti giovani, e non lo sapevamo. Tutti con esistenze più o meno normali, in tutti, più o meno, si potevano ancora intravedere i liceali che eravamo solo due decenni prima. Mauro e Gabriella si erano poi sposati, avevano due bambine. Si sapeva che lei aveva una storia importante con uno di parecchi anni più vecchio, ma a qualunque pubblico disponibile offrivano l’impeccabile recita della famigliola compatta come un palloncino, e altrettanto vuota. Degli altri, quasi tutti avevano messo su famiglia, qualcuno già ne viveva la disgregazione. Tu arrivasti in ritardo a casa della Riccia, non ti vedevo da un paio d’anni. Eri appena un po’ meno snella, appena un po’ più spenta. Le tue parole non mi sembravano le tue, come se te le avesse prestate qualcuno. Non eravamo più due specchi che si fronteggiano, solo due persone che si conoscono, che hanno un passato comune, sbiadito come una vecchia foto.
Ti eri sposata con quel tipo sfuggente che non mi aveva mai trovato simpatico, e che a me risultava del tutto indifferente, una tua appendice irrilevante. Vi eravate lasciati dopo cinque anni – liquidasti con un gesto secco della mano che riconobbi la storia matrimoniale – e adesso convivevi con uno “di là”, di Aviano. Niente figli, e il tuo tono mi consigliò di non fare domande.
Io avevo finito per sposare Lisa, che avevo conosciuto all’università e che aveva aspettato con pazienza che mi decidessi ad accorgermi della sua presenza immancabile e discreta nei momenti difficili, paradigma di tutto il nostro rapporto. Avevamo due figlie, allora di tre e cinque anni. Dipingevo sempre, con qualche modesta soddisfazione. Ti sarebbe piaciuto vedere i miei lavori. Ma certo, ne sarei stato felice.
Fatti sentire, ti dissi salutandoti.
Ma abbiamo continuato a vederci sporadicamente, e sempre per caso.
L’altra sera mi sei tornata in mente mentre Simona, la mia primogenita ormai ventenne, attraversava il soggiorno dirigendosi verso la porta di casa. Era da poco rientrata, si era liberata dei jeans e della scarpe da tennis d’ordinanza, e, in calzoncini e maglietta, si accingeva a sedersi in veranda, in attesa del suo ragazzo. Non so dirti cosa di preciso mi abbia riportato ai giorni di quell’ultima estate dopo la maturità. L’ho guardata trasognato, guadagnandomi uno dei suoi sberleffi – scendi dalle nuvole, papà! – e si è dileguata ridendo. Lisa ha distolto un attimo lo sguardo dal computer, ha sorriso come fa lei, arricciando un po’ il naso, che è il suo modo di dirci che si diverte con noi e che non è assente, mai. Dopo un po’ si è affacciato Stefano, uno spilungone rosso di capelli, per salutare. Li ho sentiti ridere, parlarsi fitto. E mi ha preso un’acuta nostalgia, un desiderio struggente di rivederti, e di essere visto da te, che mi hai conosciuto com’ero allora. Forse quella frase, così simile al tuo dai, Luca, sveglia!, forse quella sua tenuta da fanciulla in fiore, chi lo sa, poi, come funziona davvero la memoria; mi ricordai di te, nelle sere d’estate, che scendevi al portone in calzoncini e maglietta, io ti aspettavo in sella alla mia bici con un piede a terra. Toglievi la catena alla tua bici e si andava via, a cercare un posto tranquillo, per sedersi a dire scemenze, a raccontarsi sogni, a fumare. A volte a stare in silenzio, due animali felici. Come diceva mio padre, con tutta la vita davanti.
E insomma, alla fine stamattina ho telefonato a tua madre. Ciao, Luca, come va? Siamo stati un po’ a parlare di figli che crescono, di come è passato il tempo, della sua artrosi. Le ho detto che avevo bisogno di rintracciarti, per un problema di salute, no, non mio, sto bene, grazie, è per l’inesistente moglie di un inesistente cugino, sa, per fare dei controlli. Poveri vecchi, vogliono sentirsi dire cose rassicuranti, e su quelle si acquietano subito, senza indagare, senza rilevare incongruenze.
Adesso ho il tuo numero sotto gli occhi. Ma tanto l’ho imparato subito a memoria. Il segnale di libero, tuuu, tuuu, tuuu. E, all’improvviso, la tua voce