“MA DI CHE”
di Lucia Corsale
Lo chiamavano “Ma di che”, ma aveva nome, natali e mestieri. Voltava zolle, dolori passati e recenti, calava reti, issava l’anima dai fondali, e a chi domandava, per favore, la prego, il ciuffo di capelli è lungo, non vedo, la barba è rasposa, incolta, zac, un colpo di forbici e rasoio, mai un diniego. A contarla tutta, l’omo se la cavava in ben altri mestieri, affilatura di falci, coltelli, ché le lame non recidevano, modelli di carta, impuntura a coperte, designer di colli e cappotti, che, poi, nell’arte trovò il giusto impiego.
Con tutto ciò, l’omo, quaranta anni e passa, non voleva chiamarsi agricoltore, pescatore, barbiere, arrotino, sarto, pittore, perché di levigare la “R” non ne voleva. Ogni soggetto, verbo, complemento, pronome, avverbio che la contenesse l’evirava, pardon, l’evitava, e financo le generalità di cui fare a meno non poteva.
Ma il difetto non era univoco, identico, omogeneo, bastava un alito di scirocco, la freschezza della brezza, la nascenza del giorno, l’affaccio fosco della sera, un fremito d’ autunno, il ballo della primavera e la “R”, invece di saltare, “RRRRRR.” Un rollare che il poveretto abbinava a giravolte di capo, inarcamenti di schiena, cadute di ingegno. I genitori, certo, che disdetta, ignavi o ignari del vizio in sorte al primogenito, l’avevano chiamato Rosario, e come se ciò non bastasse, e come se ciò non fosse già fonte di turbamento, il secondo nome fu quello di nonno Ruggero. Il cognome, certo, non si doveva scancellare, la casata conta, eccome, le origini, la reminiscenza, e, allora, allora di Brancaforte non si poteva fare a meno.
E menomale che il nonno materno non aveva preteso un cantuccio, che so io, per il nome proprio, per serbare la discendenza, dare continuità alla specie. Ad onor del vero, il suo nome era sobrio nelle consonanti vibranti, con la “R” difatti pigliava soltanto l’abbrivio, ma cozzava col seguito, un contatto cacofonico, uno sfregio alle orecchie, all’armonia del linguaggio e dello spirito. Il nonno materno, difatti, era Rocco Puglisi, unione accettabile, macché sfregamento, logorio di lingua, smarrimento. Rosario Ruggero Rocco Brancaforte sarebbe stato, però, troppo, un si salvi chi può, un’armata Brancaleone.
Appena nato, comunque, s’attaccò regolarmente al seno, la mamma, Mariella, colma di latte e pregna d’amore, lo vezzeggiò, l’adorò come nostro Signore. Rosario Ruggero mosse i primi passi, lì, dove l’edera avanzava tra i baci del sole e l’urlo della tempesta, lì, dove il mandorlo era strascico di velo e trina per la festa, casca il mondo, casca la terra e tutti giù per terra.
<<Bi, ma quant’è bravo questo figlio mio, gioca coi cugini, i figli dei vicini, ci presta pure i giochini e dice ma di che.>>
Il difetto di pronuncia passava, invece, in sordina, cosa che s’aggiusta è, l’età ci vuole, un poco di pazienza.
All’inizio della scuola, però, cartella in groppa, biscotti delizia alla cannella, Rosario Ruggero Brancaforte fu messo alla gogna. Qualcuno lo imitò, un altro gli fece il verso, e come se ciò non bastasse, e come se ciò non fosse già fonte di turbamento, un coro di pernacchie si levò al cielo. A sentire “ PRRRRR” il poveretto si tappava le orecchie, ma in preda alla scompiglio era, a violente contrazioni, indecifrabili emozioni.
<<Aiuto! Aiuto!>> gridava fuori di sé la maestra .
E dopo aver invocato i Santi numi, e dopo aver implorato il Santo Dio, la maestra, che con la “S” mica aveva tanta destrezza, un sibilo di fiamma e di incertezza, interpellò la madre.
<<Sssssssignora, non ne posssso più, ssssuo figlio porta sssscompiglio, dissssturba la lezione, è fonte di dissstrazione.>>
<<Mio figlio? Ma che va dicendo? Buono come l’agnello è, la pecora, il bue, ma non è asinello. >>
<<Come ossssa mettere in disssscusssssione il mio dire, le mie asssserzioni?>>
<<E chi osssa? e chi disssscute? e chi asssserisce? ma lei, mi sssscusi, come insssegna cossssì?>>
<<Il mio è un difetto di pronuncia, sssuo figlio sssoffre di malattia sssstramba, che non ssi può contare, ssolo l’opera di maghi, esssorcisti e fattucchieri gli potrà giovare.>>
<<Ma a lei, mi scusi, cchi materia ci crisci nel cervello?>>
<<Tutte mi cresssscono e tutte insssssegno.>>
<<Ah! Ah! Ah! Che ci pare che parlo dell’ italiano, di matematica, geografia o delle scienze? Di materia grigia parlo, ma lei ha una fabbrica di niente.>>
<<Come sssi permette?>>
<<Ah, mi capì, finalmente. Mio figlio è sano come un pesce e, se ce la devo dire tutta, non fu parto di streghe, nemmanco del demonio fu il seme. Rosario Ruggero del mio ventre fu frutto, di baci e strapazzi colla buonanima di Raffiele che, meschino, morì passato un anno e un mese.
Perciò, senza lavoro e colla pensione che bastava per coprire le spese, mi strumentai a orlare tovaglie, bordini di passamaneria a tende, strisce di porpora a omini di chiesa e ggianfannenti. Mi strumentai a infornare rigatoni, ragù e besciamella, assai dolce la cassata siciliana, cu crema di ricotta, pasta reale, cioccolata goccia a goccia, bi, bi, bi, che, poi, lucidature a vassoi di puro cristallo, monete e medaglie d’argento, case di nobili e padroni ormai di niente. >>
La maestra, però, non sentì scuse e ragioni, ma che sboccio di tenerezza, germoglio di carità, un covo di vipere, anzi, prese a crescerle in cuore. Perciò, invece d’allentare la morsa, invece di limare gli artigli, rincarò la dose, così, per ripicca e, certo, per diletto. Esausta, la madre s’appellò al preside, quella schifosa ci tira le orecchie, ci dà scappellotti, ‘u figghiu miu agghiutti vergogna e gesso.>>
<<Signora, la maestra è fora di testa, lasciasse correre, un bicchiere d’acqua non è una tempesta.>>
La mamma s’informò per cambiare scuola, ma dieci chilometri c’erano ppi jiri e ppi turnari, e quel povero figlio suo, perciò, come poteva studiare? Un poco di istruzione, certo, era necessaria e, sì, stringere i denti fino alla quinta elementare. Rosario Ruggero, pigliata, perciò, la pagella, oh, tutti nove, dieci e ssssei in condotta, la chiuse nel cassetto e uscì per lavorare.
Arrivò nel fondo di un certo Don Tano Balistrieri, non si scherza, dieci ettari di ulivi, querce, aranceti, viali percorsi da siepi, buganvillea, rose rosse, viole del pensiero. Nessuno li aveva pestati o baciati, a parte Jano Maniscalco, avanzo di galera, Turuzzo Scillicò, scognito di sacramenti, Peppino Lanzafame mangia pane a tradimento e una certa Annuzza Bonvicino, serva picciridda e prediletta. Da fuori si vedeva picca e nenti, la barricata del muro a secco, spiragli tra le sbarre del cancello, ma c’erano le pagine del giornale e la voce correva, correva.
Quella villa, sissignori, era abuso di potere, colonne di marmo, balconi tronfi di sfregi, linzola cu profili d’oro ai quattro venti. Due cani neri lucidi fiutavano l’ombra dei cristiani, digrignavano i denti, aprivano le fauci, i crateri. Nel fondo, Don Tano allevava conigli, a-mmunzeddu carote e balle di fieno, nasi frementi e figliare perpetuo. Nel fondo, Don Tano allevava galline, bianche, gonfie, un pizzico di cicoria, timo, santolina, il gusto d’un vermetto, bono è pure l’ insetto. Nel fondo, Don Tano allevava porci, bucce di frutta e patate a macerare, ma la domenica festa è, pappa di crusca e pugnetti di granone.
Poi, c’era la casuzza di pietra, stipata di sementi, un tavolo e attrezzi del mestiere, macchie di sangue nel pavimento, una scanna, che anche il cielo piangeva.
E fu quel giorno che Rosario Ruggero, raccolta l’uva e data a mangiare l’erba, sentì un acuto, voce di fimmina canusciuta, aiutoooooo, uno sparo, un flebile gemito.
Rosario Ruggero seguì cogli occhi una farfalla, il brivido d’ali di fiore in fiore, il giallo screziato d’arancio, un soffio di vento, il battito del cuore. Mai l’avrebbe trafitta o spiaccicata contro il muro, meglio chiusa tra i libri, a verseggiare la morte, serbare il pudore.
Rosario Ruggero aspettò, comunque, il momento, ecco, la “R” non slitta, il capo non pende, la schiena s’addrizza, e prese congedo.
<<Don Tano, mia mamma sta male, ha le febbi altissime, è uscita fuoi di testa, dice do do do, e e e, mi mi mi, fa fa, sol. Il dottoe disse è cosa che non passa, non ci può l’eba magica, il cado santo, la centauea minoe, il tifoglio fibino. Io, peciò, la saluto tanto, a lei, a Jano Maniscalco, Tuuzzu Scillicò, Peppino Lanzafame e specialmente a Annuzza Bonvicino. >>
<<Vabbè, grazie lo stesso.>>
<<Ma di che.>>
Rosario Ruggero doveva, però, pur campare, inventarsi un mestiere, tornare a lavorare.
Arrivò nel peschereccio d’un certo Pippo Schirinciò, non si scherza, sedici metri a cavallo di impeti, a setaccio di coste e alture, una miniera di tonni, pesci spada, dentici al chiaro di luna. Ché, invece, quando il cielo si rimboccava con nubi e grumi di tempesta, capitano Pippo, sulle ginocchia artritiche e lo sgabello sulla destra, intrecciava reti, sprazzi di pace, ciàuru di contentezza. A bordo c’erano pure Vastianazzo Interlandi e ‘Ntonio Geraci, i toraci nudi scolpiti, un turgore nel cavallo dei pantaloni, affamati di vita e vizi. Rosario Ruggero fu preso al seguito, un colpo di ramazza come ti pare e piace, 38 tonnellate di stazza, non si scherza, le devi sfregare, poi, certo, quando ti resta tempo, vieni a pescare e diliscare. Qua, però, ci vuole l’acqua col sapone, meglio in ginocchio, tiè lo spazzolone, troppa la puzza di pesce e di sudore.
<<Obeto Uggeo, lo burlava Vastianazzo, lu mari stasira è linzolu di sita, calati, so io come pigliarti.>>
Il bambino si mordeva le labbra, né un grido, nemmanco un lamento, che sgomento l’innocenza rubata, nel frangente un tonnetto s’era arreso, la testa mozzata e il sangue scorreva, scorreva.
Appena gettarono l’àncora al limitare del molo, la scaletta di corda tesa, il cielo reclamo del mare, si lavò con l’acqua dolce, si mondò dal rancore.
Rosario Ruggero aspettò, comunque, il momento, ecco, la “R” non slitta, il capo non pende, la schiena s’addrizza e prese congedo.
<<Capitano Pippo, mia mamma sta male, scancia il giono con la notte, il sole ci pae luna, la luce la chiama scuo, e poi, e poi il suo pensieo cammina all’inveso, ecco pe faci un esempio, invece di die gioia mia, mi dice aim aioig. Cosa da non cedeci. All’inizio, pinzai che aveva impaato un’alta lingua, non so, aabo, isaeliano, afghanistano, ma il dottoe mi disse è cosa che non passa, non ci può l’eba magica, la melaleuca, l’eucalipto, la popoli, l’eisimo. Io peciò, la ingazio pe l’aiuto, la saluto tanto a lei, a ‘Ntonio e specialmente a Vastianazzo. >>
Rosario Ruggero doveva, però, pur campare, inventarsi un mestiere, tornare a lavorare.
Arrivò nella sala di Giovanni Incardone, non si scherza, trenta metri quadri di luci, specchi e bellezza, i clienti sopra poltroncine di pelle nera, e lui, oh, precisione di riga e compasso, a sfoltire criniere, pareggiare corone, via l’ alone di vecchiezza.
A Giovanni, faccia schiacciata, basette quadre e naso che rubava assai aria, non ci parse vero, un aiuto c’era, una manna dal cielo. Qualcun altro, certo, già con lui ci lavorava, Filippo Mannalà, Pasquale Carpinteri, ma affettavano le mascelle e il risciacquo era leggero. Lui che spaccava il capello in quattro e magari il minuto, che interravava centesimi e sbucciava soldoni, niente gli sfuggiva, un pelo rizzato, un ciuffo argentato, no come questi qua qua ra qua e giovani di niente. Non sia mai, un picciriddo, invece, lo si può addestrare, è come la plastichina, si può modellare. E, poi, certo, dei piccioli si deve accontentare, che vuoi che pretenda uno stipendio regolare? Ci bastano le mance, un pugno di coriandoli, o Dio, Dio, Dio, di più non può sperare.
Alla fine di gennaio, perciò, la stanchizza accucchiata tutto il mese, Rosario Ruggero uscì coi capelli arruffati e le mani protese. Ma siccome era bambino, siccome non doveva reclamare, agghiuttì stille di sale, il primo giorno di primavera.
Rosario Ruggero aspettò, comunque, il momento, ecco la “R” non slitta, il capo non pende, la schiena s’addrizza, e prese congedo.
<<Signo Gaetano, mia mamma sta male, si stappa le vesti e macai i capelli. Mi domanda di’ chi sei, ma che vuoi, fatti sempe i fatti tuoi, e poi, e poi, mi tia liti di shampoo. Il dottoe disse è cosa che non passa, non ci può l’eba magica, la melissa, il luppolo, la camomilla o valeiana. Io peciò la saluto tanto, a lei, a Filippo Mannalà, a Pasquale Capinteri e di nuovo a Vossia.>>
<<Vabbè, grazie lo stesso.>>
<<Ma di che.>>
Rosario Ruggero doveva, però, pur campare, inventarsi un mestiere, tornare a lavorare.
Arrivò nella bottega d’un certo Antonio Scilipoti, non si scherza, affacciata da sempre sul lungomare, la ringhiera mangiata dalla ruggine, sbattuta dai cavalloni. Lo sfrigolio della mola rettificava, affilava, lappava coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto, “ripariamo cucine a gas, se avete cucine a gas noi l’aggiustiamo.”
Rosario Ruggero mai avrebbe sbandierato “Donne, è arrivato l’arrotino”, non si confaceva alla di lui dizione e, poi, non poteva chiamarle donne, tutt’al più signore, ma c’era quella” R” di troppo, mentre dama di corte o di palazzo era storia di cavalieri. Lui, perciò, colla manuzza che a stento acchiappava la vita, zitto, di faccia all’attrezzi del mestiere, limava, limava, aggrappato a ‘n-pinzeru: E se la “R”, putacaso, s’accorda? Niente più ammanchi di consonanti o accenti roboanti, una “R” vibrante, comu na strata che tira dritto senza discese, inciampi, nemmanco d’acchianata.
Un lunedì che il sole era scialbo e il cielo ragnatela di nuvole, Rosario Ruggero trovò la saracinesca abbassata, sicuramente un ritardo di niente, un colpo di sonno, un guasto al motore. S’appoggiò alla parete e cominciò a contare uno, due, tre, il mare era un rigonfio di schiuma, una bava gli colò nel petto. Arrivò l’imbianchino, una sostanza vischiosa nel secchio, un avviso listato di nero, Antonio Scilipoti, 53 anni, un improvviso malore, le porte aperte della casa del Signore. Il bambino sgranò l’occhi, e il trrrrrrrrre fu un rollo di tamburo, un ruzzolio per le scale, ma quale tempo d’un saluto, d’un rrringrrrrazio, un fiorrre ai piedi della barrra.
Tornò a casa, gli occhi conche di pianto, un punto interrogativo la schiena, le mani al cielo, Gesù, fa’ che non sia vero.
<<Mamma, mamma, e oa?>>
<<Tiè cca un rocchetto di filo e aghi d’ogni misura, na pezza di cotone, e forbici a punta e a zig-zag. >>
Rosario Ruggero si mise di buona lena, punti filza a gonne arricciate, punti indietro alle cerniere, sottopunti a scolli d’organza e seta, il movimento del polso preciso alla madre, ecco, ecco, un lenzuolo di tela grezza, un nastro di sbieco, una fermatura di frange.
<<Bravo, figghiu miu, bravo, tiè cca, vedi se ce la spunti cu sta manica a sbuffo, il collo alla marinara, la gonna plissè.>>
Nel paese, certo, qualche signora dabbene cominciò a parlare alla sorella ben degna, all’amica fidata, al parente di primo, terzo e sesto grado: la signora Mariella ha un figlio deviato, parla poco e niente, tiene moscia la “R”, cuce lino, lana e velluto, disegna abiti di percalle con orlo a volant, e mentre sua madre rigoverna la casa della gente, farcisce i bignè con panna e chantilly.
E come se ciò non bastasse, e come se ciò non fosse già fonte di turbamento, i ragazzi lo presero a burlare.
<<Frollo, frollo, frollo, cuci pizzi, trine e merletti, ma sfili mai reggipetti e corpetti?>>
Il ragazzo, spruzzi di rosso sulle guance e le orecchie, gocce di sudore nel collo e nelle ascelle, taceva, meglio non dirrre, non rrrisponderrre, non rrreplicarrre.
<<Madrrre, madrrre mia, lasciatemi andarrre, questo lavorrro si mangia la vista, mi chiude la mente, mi rrruba l’arrria.>>
<<Ma perché figlio mio? Ti dà che mangiare, tanticchia di tranquillità, nun c’è bisogno ca vai di cca e di ddà.>>
La testa tracciò un cerchio, il corpo fu sciame di scosse, “RRRRRR”.
<<Maria Santissima, mali si sta sintennu. Gesù, padre e padrone di tutti li regni, Gesù, ca fai calmare li venti, Gesù, battezzato e biniditto a lu Giordano, Gesù, penzaci tu, dacci na manu.>>
Pioveva a tamburo battente, sobbalzi pei tuoni in valli e valloni, abbagli pronti a stracciare il cielo. Rosario Ruggero si tappò le orecchie e, steso sull’impiantito freddo, ammorbidì la “R” come creta, crema. Un colpo di spazzola per levarsi la polvere, e uscì, uh, che meraviglia, l’arcobaleno. Lo pronunciò, così, senza salti né spinte, ogni sillaba al posto giusto, con un fiore fra i denti, vapore leggero. Levò il gruzzolo dalla mattonella e comprò gli attrezzi: tubetti di acrilici rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e viola, spatola e cazzuola per stenderli, pennelli in legno di betulla. Nella valigia mise pure un cavalletto, carta, cartoncino telato, legno da trattare e prese a vagare fra vicoli, straduzze, frazioni e circondari. Sulla scalinata del tempio, al riparo d’una quercia, stendeva i colori, un ventaglio di gradazioni, toh, ecco il disegno, un risciacquo alle setole, si ripiglia il contorno, la nuvola nello sfondo.
<<Un ritratto, prego, una faccia piena, un profilo aquilino, un quadretto familiare.>>
Il barone, la contessina, il cavaliere, si fermava, una miscellanea di tinte, prendeva forma il soggetto, una schiarita al mento, la giusta piega ai capelli, la malinconia sfumata, la somiglianza, sì, su commissione, che lusinghiera rappresentazione!
<<Quanto le devo?>>
<<Ma di che.>>
<<Ha dipinto egregiamente, il suo talento va onorato.>>
<<Faccia lei.>>
Il padrone, omo ricco, ben distinto, sfilava il portafogli dalla tasca e, senza eccepire, né contenersi, elargiva monete d’argento, un luccichio d’oro tra i denti. E come se ciò non bastasse, e come se ciò non fosse già fonte d’appagamento, passava la voce, spargeva il talento. La fama di Rosario Ruggero superò, perciò, pianure e colline, echeggiò in ogni recesso, vassalli e valvassori giunsero al suo cospetto.
<<Un ritratto per me, da esibire nei borghi, poderi, domini, a parenti, a chi è del mestiere.>>
Rosario Ruggero dipingeva dall’alba allo sfiorire della sera, accovacciato su un giaciglio guardava l’unica stella, recitava una muta preghiera.
Un giorno passò di là una signorina, l’ombretto azzurro e viola negli occhi, la gonnellina, eh, eh, uno svolazzo ciclamino, la camicetta sbottonata sulle poppe a pera, traballante sui tacchi, la borsetta a tracolla, la lingua da un angolo all’altro della bocca rossa accesa.
Rosario Ruggero restò d’incanto.
<<Chi hai di taliàri?>>
<<Soltanto, un colpo di pennello.>>
<<Soldi nun hajiu ppi pajariti, ti pozzu dari tanticchia di piaciri, di svago, senza àutra pretesa.>>
<< Come si chiama?>>
<<Mariolina Santanchè.>>
Rosario Ruggero non osò proferirlo, né tanto meno riferì il proprio nome, si mise subito al lavoro, principiò dai toni. Gli occhi presero i colori della terra, il vestito fu bordeaux al ginocchio di pura seta, l’incavo del seno si ornò di madreperla, nella bocca lo sboccio d’una rosa. Ecco, ecco, l’ultimo tocco.
<<Nun ci pozzu cridiri, chi mi facisti bella. Veni, veni cca.>>
Il bacio fu lungo e l’abbraccio assai tenero, l’omo sentì uno sfrigolio nello stomaco, un brivido sulla pelle, non era “BR” del gelo.
<<Avanti, acchianami di supra, comu si fussi a cavaddu.>>
Fu un dondolio lento, una danza di desideri, una musica leggera, si sciolsero i ventri, si alleggerirono i pensieri. Rosario Ruggero si presentò, nome e cognome, finalmente, senza esclusioni, né carichi di “R”.
<< Mariolina Santanchè, è stato un vero piacere, grazie, mi ricorderò di te.>>
Lei si ricompose, il quadro poggiato sulla testa e s’incamminò a passo lento. Un attimo, un ripensamento, voltò indietro la testa, in bocca l’aroma di caramella: <<Prego, ma di che.>>