L’EMIGRANTE
Storie di vita
Introduzione di Marina Agostinacchio
Si lasci il proprio paese oggi come ieri. Si parte in cerca di lavoro. In gran parte accade ai giovani.
“Ho lasciato la mia casa, i miei genitori, il mio fidanzato, gli amici, i luoghi e le usanze a me noti perché mi è stato insegnato che l’autonomia economica è il primo gradino per essere delle persone libere”, dice l’autrice del racconto proposto.
Emigrare vuol dire imparare a convivere con altre persone che non sono quelle con cui sei cresciuta, provare a dire le tue solitudini in un soliloqio a metà strada tra casa e lavoro, imparare a trovare il passo in un sistema nuovo di vita e scoprire che anche nella vita precedente eri in un eterno equilibrio tra la ricerca di una tua libertà e ciò che l’esistenza ti indica di essere.
Di Sabina di Ruocco
Sono partita dal mio paesello non perché volevo conoscere un’altra realtà, o perché dove vivevo non stavo bene, ma solo perché lì non c’era lavoro. Da pochi mesi mi ero laureata, ma fin da piccola sapevo che sarei dovuta andare lontano. Erano tantissime le persone che avevo visto andar via per motivi di lavoro. Alcune ritornavano appena potevano, altre no. Non sapevo quali motivi spingessero le persone in questa scelta. Io in realtà mi ero preoccupata solo di trovare un lavoro, ovunque fosse, senza preoccuparmi di cosa ciò comportasse.
Ho lasciato la mia casa, i miei genitori, il mio fidanzato, gli amici, i luoghi e le usanze a me noti perché mi è stato insegnato che l’autonomia economica è il primo gradino per essere delle persone libere. Sono così arrivata in un altro luogo, con un’altra cultura, con altre persone. Se questo luogo è migliore o peggiore chi può dirlo; è diverso; è altro da quello dove sono nata. Io però pensavo che sicuramente mi avrebbe resa libera.
La realtà non è così semplice come io pensavo. Emigrare significa non avere più la tua casa, i tuoi affetti, le tue abitudini, le tue usanze, perfino le strade non sono le stesse, anzi non sono neanche simili. Ma io non lo sapevo.
La prima cosa che ho dovuto fare è stata quella di trovare una casa, in un luogo che non conoscevo, in cui non avevo nessuno a cui chiedere aiuto. Per mia fortuna con me era stata assunta un’altra ragazza, la quale proveniva da un paese ancora più lontano del mio. Senza neanche conoscerci decidemmo di cercare una casa insieme. Il bisogno di un tetto ci spinse a non essere troppo pretenziose nella nostra scelta; anzi direi proprio che fummo di bocca buona. Prendemmo in affitto un’abitazione costituita da una camera da letto e un cucinotto con il bagno incorporato.
La convivenza non è stata affatto sgradevole, ma tra noi non è nata un’amicizia. Il bisogno ci aveva avvicinate, ma evidentemente eravamo diverse. Vivere insieme ci permetteva di dividere le spese e di avere un po’ di compagnia. Quando sei emigrante sei solo e ti fa piacere, quando torni nei tuoi locali, vedere una faccia nota, con cui condividere la tua esperienza. In realtà non ci siamo mai confrontate sui nostri sentimenti di solitudine, sulle sofferenze che provavamo nello stare lontane da casa. Ma i nostri volti cambiavano espressione quando il telefono squillava e un nostro caro ci aveva cercate. Forse temevamo che l’esternazione dei nostri sentimenti potesse contribuire ad esacerbarli o forse pensavamo che non parlandone sarebbero svaniti. Io però, oggi riesco a dirlo, i primi giorni ho pianto spesso e mi chiedevo se avevo fatto bene. Ho continuato a rimanere lì penso per la vergogna che avrei provato nel tornarmene a casa. Ma adesso so cosa spingesse le persone a tornare. Ci vuole molta forza d’animo per rimanere in un luogo che non è il tuo, dove non ci sono legami affettivi, dove tutto il tuo mondo è il lavoro, dove anche le espressioni linguistiche sono diverse, dove il tuo piatto tipico non c’è. Senti la rottura con il luogo di origine, con le tue usanze, con la tua mentalità. Un po’ alla volta cambi, ti trasformi, diventi altro.
Ho faticato per trovare il giusto equilibrio fra i valori che mi erano stati inculcati nel mio paesello e quelli del luogo dove mi trovavo. Ho faticato per non sentire la nostalgia dei luoghi e delle persone care. Ho faticato per dimostrare alle persone le mie qualità. Quando sei a casa tua, tra la tua gente, tutti ti conoscono, sanno chi sei e non devi dimostrare nulla. Ma quando sei straniero devi dimostrare che sei una brava persona, affidabile, onesta, retta e corretta.
Tanta fatica per divenire una donna libera. In realtà l’unica libertà che ho acquisito è quella economica e non credo possa esistere altra libertà nella nostra società. Libera di spendere i soldi. Di possedere dei beni. Di consumare dei prodotti. Di essere in quanto hai. Non ho fatto altro che assecondare un sistema che rende le persone valide per ciò che possiedono.
Per essere come il sistema mi vuole: lavoratrice, moglie, madre e figlia, ho rinunciato ad una identità certa per divenire un ibrido. Sono una cittadina italiana che ovunque andrà sarà sempre straniera, sia nella sua terra natia sia in quella di accoglienza.
Certo anche prima ero ciò che il sistema voleva ed ho sempre giocato secondo le regole della società in cui sono vissuta. Anche se fossi rimasta nel mio paesello sarei stata moglie, madre, figlia e forse anche lavoratrice e sarei stata come la società mi vuole. Se non avessi conosciuto l’altra faccia della Luna sarei vissuta nell’illusione, nella speranza della piena libertà. Ma adesso …