LE STAGIONI DI OLIVIA-RACCONTO
DA IL FAZZOLETTO DI STOFFA
RACCONTI DI ANTONELLA RIZZO
Costa tirrenica calabrese, 1975 Da bambina amavo il mare. Al punto di ammalarmi. Quando finiva la scuola aspettavo quel giorno sospeso tra la notte e l’alba, ciondolante nella cucina dal disordine tipicamente meridionale. Il morire d’attesa si faceva quasi tenero. Non c’è più nulla nel ricordo se non lo scompartimento in seconda classe e il rumore delle rotaie, l’addio al tormento quotidiano verso i luoghi dell’affetto e della famiglia. Lì, in quella casa ai bordi della spiaggia avrei trovato riparo fino all’autunno all’ombra dei glicini fioriti; mi sarei accontentata del gelato delle quattro alla crema e dello sguardo di Pietro, il figlio della comare, che fingeva di sorvegliare il bollore dei pomodori nel fusto adibito a pentolone per la conserva. Quando il mare si ingrossava, facevamo il bagno a riva aspettando che il cavallone ci tirasse a sé e poi ci lanciasse in alto, sommersi dalla spuma. Poi, nel secondo atto, il gigante perdeva di potenza abbandonandoci a riva dopo la cavalcata selvaggia. Era un’emozione così forte che valeva il pericolo estremo di essere gettati al largo dalla corrente, nuotando invano per tornare a riva. Un giorno, la mareggiata fu così forte che arrivò al limite della strada, dove mia zia aveva allestito un pollaio con qualche asse di legno e un rotolo di rete. Al mattino contammo i cadaveri, mentre gli adulti si apprestavano a rimettere in funzione i fusti dei pomodori per cuocere i resti dello tsunami. Mangiammo pollo per tutta l’estate. Alla fine della stagione trovai ad attendermi una sorpresa sgradevole come il calice amaro di Cristo, e così gettai maledizioni sul mare e tutte le sue insidie. Mi ammalai nell’anima. Chiamatelo ennui, per me è stata solo disperazione. Il medico disse che forse erano i vizi di una ragazzina ma per cautela mi prescrisse un leggero tranquillante