Per la rubrica “Le disobbedienti”, oggi uno scritto autobiografico di Lisa Sforza.
Ribellarsi al padre, per cercare la felicità altrove, è una scelta di vita alternativa; non sempre i genitori sanno accettare una scelta di vita, provare a dialogare in modo pacato con i propri figli e, soprattutto, rispettare la loro decisione finale.
Potremmo leggere anche questo brano come se fosse una sorta di lettera al padre. Attraverso gli occhi di Lisa, una ragazza determinata, desiderosa di cambiare il rapporto col genitore, c’è forse tra noi lettrici e lettori, chi non si possa riflettere in lei?
IL BIGLIETTO
-Se non ti va bene, quella è la porta! –
Era una delle tue frasi ricorrenti e preferite e me la urlavi spesso in faccia, inferocito.
E poi eccone un’altra:
-Finché mangi alla mia tavola, tu fai quello che voglio io!- dicevi urlando, stringendo i denti e schizzando veleno dalle pupille.
Scavando nella memoria non riesco a trovare un solo motivo che giustificasse una tale rabbia.
Ovvia quindi la mia decisione di prendere la fuga.
Uno dei primi giorni di Giugno del 1968, di nascosto preparai i miei pochi bagagli, vestiti, libri e qualche piccola scorta alimentare sottratta di soppiatto dalla dispensa, all’insaputa di mamma, e caricai tutto sulla Cinquecento bianca di Augusto che mi aspettava, alquanto controvoglia, in strada.
Preparai anche un biglietto che lasciai sulla tua scrivania. Era laconico, ma esprimeva tante cose…a saperlo leggere.
Diceva più o meno così:
-Che la porta è quella sono ventun anni che lo so! E adesso, con grande gioia, me ne vado!
….
Certo non sarò stata perfetta, ma ora, da adulta, posso dire con certezza che non mi meritavo per niente il tuo comportamento rabbioso.
Insomma, papà, cosa volevi da me per accettare il fatto che io esistevo?
Quasi mai, lo sai, mi hai rivolto la parola con un tono di voce normale, mai hai parlato con me dei problemi della vita, di politica, di problemi sociali. Io non ho mai saputo quale fosse il tuo orientamento politico, non mi hai mai narrato aneddoti o ricordi della tua famiglia d’origine o della tua terra. Non abbiamo mai discusso di arte, non abbiamo mai avuto attimi di intimità e di tenerezza, mai l’ombra di un sorriso di compiacimento, mai una carezza, mai un consiglio paterno. Solo le tue urla, le tue grida, gli ordini perentori, i ricatti odiosi, l’ira e le botte. Solo questi sono i ricordi che mi restano di quel pezzo della nostra vita insieme.
Perché, papà, spiegami, perché?
Spiegami perché mi detestavi cosÏ?
Sembrava a volte che quell’accanimento fosse dettato da un preciso motivo,del tutto ignoto a me, ma così martellante per te da rasentare la paranoia, forse nutrivi qualche sospetto riguardante la mia precipitosa venuta al mondo? Io allora non immaginavo quale potesse essere la ragione del tuo comportamento, cercavo solo di parare i colpi come meglio potevo, di vivere e cercare affetto e consolazione al di fuori della famiglia, che mi pesava addosso come una cappa di piombo.