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La mia libertà vale di più:”Il buongiorno si vede dal mattino, ma la sera può essere incantevole”

Il racconto “Il buongiorno si vede dal mattino, ma la sera può essere incantevole” per la rubrica La mia libertà vale di più

“Lottare contro i condizionamenti, gli schemi, ai quali non riesce ad adattarsi”, questo il messaggio di Maria Costanza Marika Luparella.
Leggete questa storia interessantissima.

La mia è la storia di una donna, che fin da bambina ha dovuto lottare contro i condizionamenti, gli schemi, ai quali non riesce ad adattarsi Finalmente, con la maturità, riesce a vivere la sua libertà nella scrittura che diventa una terapia e smette di sentirsi strana, perché acquisisce maggiore autostima.
Mi hanno preso col forcipe, parto podalico, contorta prima ancora di nascere, mia a madre stesa sul tavolo della cucina fumando l’ennesima sigaretta insieme al dottore che gliele consigliava per rilassarsi ed io che non mi decidevo ad uscire. Scena da film horror se proiettata ai tempi di oggi con gli ospedali dalle stanze sterilizzate e apparecchi sofisticati per monitorare tutto! Qualche anno dopo sarei nata serena e riposata con un salutare parto cesareo e anche la mia mamma se la sarebbe cavata molto meglio. Il dottore, però, bravissimo, non si può negare, riuscì ad estrarmi con quella pinza di ferro che sembrava uno schiaccianoci; ero bellissima, una bambola di quattro chili dal viso per nulla sofferente e dagli occhioni già aperti sul mondo. Avrei dovuto sorridere se non altro per la gratitudine, invece non facevo che piangere, di giorno e soprattutto di notte almeno fino a due anni, quando, in modo più rapido e sereno, è nato il mio fratellino. Ero una bimba strana, avevo parlato e camminato molto presto, ansia di anticipazione che mi avrebbe accompagnata tutta la vita. Mi piaceva uscire, passeggiare con la nonna e le zie, non mi piaceva giocare tanto tempo né con le bambole né con i giochi di pazienza e riflessione, né tanto meno guardare la televisione. I giochi nel cortile del condominio dove abitavo, però mi affascinavano: le scorribande in bicicletta, la campana disegnata col gesso, i quattro cantoni, le belle statuine, lo spazio aperto come palestra di vita, le prime innocenti simpatie nell’approccio con l’altro sesso che già allora avevano il potere di farmi soffrire. Non ero una bambina completamente felice, anzi lo ero solo nel ricordo di ora. L’ineffabilità della felicità l’apprezzi solo dopo che ti è passata davanti. Anche la scuola iniziò con le tempeste: ciò che per gli altri era semplice e lineare, per me era terribilmente difficile. Le aste non entravano nei quadretti, ma formavano scale sbilenche come le prime letterine che già da due anni sapevo riconoscere e leggere unite ad altre per formare la parola. Non so oggi che nome si darebbe ad una persona che sa leggere, ma non sa riprodurre le lettere. Le pene che mi davano le h maiuscole, la R, la T e tante altre letterine che mi danzavano davanti agli occhi arzigogolate ed elaborate erano indicibili. La mia mamma si dannava, pensava non fossi normale, in realtà sembrava che nessuna compagna provasse le mie stesse difficoltà, la maestra ce la metteva tutta ma senza sortire nessun effetto. Non riuscivo a scrivere nei righi , tanto meno a disegnare quelle figure stilizzate di precisione dove bisognava contare i quadretti. Così consegnavo sempre quaderni dai fogli stropicciati dalle lacrime e dalle continue cancellature di gomme. Avrei imparato molto dopo, quando le altre bambine disegnavano paesaggi e immagini da incorniciare, io esibivo con orgoglio quelle figure di animali o di casette che avevo imparato con tanta fatica perfezionandomi. Per quanto riguarda il disegno ero almeno 3 anni indietro rispetto ai miei coetanei. Uno psicologo, se all’epoca si fosse data la stessa importanza che si dà oggi ai disegni e ai bambini avrebbe potuto scrivere un trattato. Quando già stavo per essere circoscritta nel cerchio degli irrecuperabili, avvenne il miracolo, l’exploit: iniziai a scrivere, sia pure con una grafia pessima, e uscendo fuori le righe, pensieri complessi e profondi oltre che strutturati in modo sintatticamente perfetto e da allora non mi fermai più. La lineetta della mia autostima molto vacillante cominciò a salire un po’, grazie alla mia maestra che iniziò a gratificarmi, a stimolare i miei punti di forza, il mio amore per la lettura e ad accogliere con indulgenza e delicatezza le mie fragilità. Mi presi la rivincita: quando preparavamo le letterine di Natale da mettere sotto il piatto, le altre scrivevano sotto dettatura mentre a me veniva data l’autonomia di esprimere la mia creatività. I miei temi giravano per tutte le classi per essere lette dalle altre maestre. Era una continua caccia ai libri, li divoravo, , non bastavano mai ; quelli adatti alla mia età li avevo già letti tutti e la mia mamma spesso doveva nascondermi quelli un po’ troppo forti destinati ad un lettore più adulto. Era un dono o una condanna? Fatto sta che la vita pretendevo di viverla come nei libri che leggevo , gli amoretti adolescenziali dovevano avere gli stessi ingredienti, le parole dovevano esser pronunciate con la stessa enfasi; inutile dire che i ragazzi che frequentavo erano reali e non riuscivano a soddisfare le aspettative romantiche , mentre quelli che non mi calcolavano ed erano a mala pena al corrente della mia esistenza li vedevo come principi azzurri portatori di felicità, anche quando erano bassi e oggettivamente bruttini. La timidezza mi blocca, non riesco a parlare senza pensare prima tanto e mi sembra sempre di dire cose banali e poco interessanti, sforzandomi di abitare un mondo che non sento mio. Questa percezione della distanza tra realtà e ideale mi perseguiterà per tutta la vita: ad un certo punto sembra accorciarsi, comincio a poco a poco a far coincidere il mio mondo con quello degli altri. L’innamoramento, il matrimonio, i figli, lo studio che comincia a dare i suoi frutti, l’entusiasmo per i primi lavori mi regala armonia, malgrado le difficoltà. Ci sono momenti da fermare perché perfetti, come la nascita dei figli, i loro abbracci nel lettone quando lo spazio è poco ma la tenerezza immensa, che facevano sentirti la donna più fortunata del mondo. Il tempo inesorabile trascorre veloce, ti ruba questi momenti bellissimi e ti ritrovi orfana di figli cresciuti, e a scontrarti con i loro conflitti, le loro e le mie storture ma soprattutto con persone diverse da quelle con cui ero vissuta in simbiosi fino a pochi anni prima. Mi dedico al lavoro, ma anche lì continuo ad avvertire le stesse sensazioni dell’infanzia: il mondo digitale ormai entrato di prepotenza in tutti gli ambiti mi crea ansia, imparo lentamente e dimentico velocemente, non riesco a decodificare le icone, impiego tempo e fatica per operazioni che per gli altri sono automatismi. La stessa lentezza, ansia e imbranataggine la trovo in ambito culinario: preparare un dolce o un piatto elaborato mi crea difficoltà, ansia di prestazione e non poco senso di frustrazione. Chi vive con me non riesce sempre ad accettare e a comprendere, e la lineetta continua a scendere specie se mi confronto con gli altri. Continuo a sentirmi una bambina nata col forcipe anche se non sono più timida, in classe riesco a tenere lezioni bellissime e addirittura a parlare con disinvoltura davanti ad un pubblico di persone adulte e colte. Mi sento ancora tanto imperfetta ma a poco a poco attraverso la scrittura riesco a far entrare il mio mondo in quello reale, non ad adattarmi necessariamente a quello degli altri. Con stupore noto che ci sta chi, in questo mondo, desidera entrare. E se un po’ di perfezione ci fosse nella mente della bambina.

(marikaluparellaautrice)

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