Forugh Farrokhzad, la poetessa iraniana cantore della libertà
Introduzione di Marina Agostinacchio
“Forugh Farrokhzad, Nata a Teheran nel 1935 e scomparsa a soli trentadue anni, è la più importante poetessa persiana del Novecento, popolarissima in Iran. Alcuni suoi testi si trovano in traduzione italiana e anche francese. Nata a Teheran nel 1935 e scomparsa a soli trentadue anni. Ha fatto della libertà il principio fondamentale per la sua opera artistica e per la sua esistenza privata, riuscendo a rinnovare la poesia”.
La poesia di oggi è modulata attraverso la ripetizione della parola. Essa si perpetua ad ogni passaggio di pensiero: dall’illuminazione di una riflessione, alla caduta nella concretezza di un referente, la parola fiorisce, si distende, si deposita come un canto in un continuo ritorno fatto di volute.
Il senso della vita è tutto condensato lungo l’asse del corpo della poetessa; i ricordi, il desiderio di perpetrarsi in metonimie di sé, tra sé e il mondo.
Il canto di Forugh è la nostalgica ferita, la felice scoperta delle esistenze che l’attraversano.
Un’altra nascita
Tutto il mio essere è un canto oscuro
che nel continuo ripeterti
ti porterà
all’alba di eterne crescite e fioriture
in questo canto, io, ti ho sospirato, sospirato,
in questo canto, io,
ti ho congiunto all’albero, all’acqua e al fuoco
La vita forse
è un lungo viale dove ogni giorno
una donna attraversa con un cesto
la vita forse
è una corda con la quale un uomo
si impicca a un ramo d’albero
la vita forse
è un bimbo che torna da scuola
la vita forse
è accendere una sigaretta
nella pausa narcotica fra due amplessi
oppure lo sguardo assente di un passante
che si toglie il cappello di testa
e con un sorriso insignificante dice a un altro: «buongiorno»
la vita forse
è quell’attimo sbarrato
quando il mio sguardo si perde nelle pupille dei tuoi occhi,
e in ciò v’è un sentimento che unirò
alla percezione della luna e alla comprensione dell’oscurità
In una stanza grande quanto la solitudine
il mio cuore
grande quanto l’amore
guarda alle semplici pretese della sua felicità,
alla bellezza dell’appassire dei fiori nel vaso
alla piantina che tu hai interrato
nel giardino della nostra casa
al canto dei canarini
che cantano nello spazio di una finestra
Oh…
la mia parte è questa
la mia parte è questa
la mia parte
è un cielo portato via da una tenda appesa
la mia parte
è scendere una rampa di scale abbandonate
e giungere a qualcosa di logoro e nostalgico
la mia parte
è una malinconica passeggiata nel giardino dei ricordi
e morire nella tristezza di una voce
che mi dice:
«Amo
le tue mani»
Pianterò le mie mani nel giardino
crescerò, lo so, lo so, lo so
e le rondini deporranno le uova
nelle cavità delle mie dita, colorate d’inchiostro
Mi metterò gli orecchini
di due rosse ciliege gemelle
e incollerò alle mie unghie petali di dalia
C’è una stradina
dove i ragazzi che erano innamorati di me
con gli stessi capelli spettinati
e i colli sottili e le gambe magre
pensano ancora ai sorrisi innocenti di una ragazza
che una notte il vento portò via con sé
C’è una stradina che il mio cuore
ha rubato ai quartieri della mia infanzia
Il viaggio di una sagoma lungo la linea del tempo
e fecondare con una sagoma l’arida linea del tempo
la sagoma di un’immagine cosciente
che ritorna da una festa nello specchio
Ed è così
che qualcuno muore
e qualcuno resta
Nessun pescatore troverà mai una perla
in un esile rivo che finisce in una fossa
Io,
conosco una piccola triste fata
che abita in un oceano
e suona, dolcemente,
il suo cuore in un flauto magico
Una piccola triste fata
che muore di notte con un bacio
e rinasce all’alba con un altro bacio.
[[F. FARROKHZAD, Un’altra nascita (cit. in F. MARDANI, È solo la voce che resta, cit., p. 153-156).]]
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