Breve introduzione di Marina Agostinacchio
L’interessante spaccato di Anna Quatraro sul fare poesia di una ribelle come Amelia Rosselli ci offre l’opportunità di scandagliare una esistenza non certo priva di malessere.
A un certo punto Anna scrive della Rosselli “Mi ha insegnato così che la poesia nasce come scarto e deviazione e rifiuta pertanto la superiorità della bellezza sull’etica”. E ciò la dice lunga su uno stile di scrittura, su un’urgenza di scrittura, che vanno contro regole d’oro, per “fluire” nel vero di una realtà fatta di luci ed ombre.
Testo di Anna Quatraro
“C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce”
Leonard Cohen
Amelia Rosselli, con versi scontrosi e irregolari, mi ha convinta che la poesia abbia meno a che fare con la ricerca stilistica intesa in senso estetico di quanto non si pensi, ma riguardi piuttosto l’espressione di un vissuto dissonante rispetto alla contemplazione dell’ideale e alla sua sublimazione in versi. Mi ha insegnato così che la poesia nasce come scarto e deviazione e rifiuta pertanto la superiorità della bellezza sull’etica.
C’entrano poco anche le formule edulcorate, armate di una dolcezza dal sapore adolescenziale; Rosselli, al contrario, rimpiange della sua prima giovinezza la preziosa precisione che è propria di chi ha trascorso molto tempo a spiarsi e a indagare su di sé, senza ricorrere alla mediazione della psicanalisi o della fede religiosa, come si vede nella composizione La libellula (1958):
Fluisce fra me e te nel subacqueo un chiarore
che deforma, un chiarore che deforma ogni passata
esperienza e la distorce in un fraseggiare mobile,
distorto, inesperto, espertissimo linguaggio
dell’adolescenza! Difficilissima lingua del povero!
rovente muro del solitario! strappanti intenti
cannibaleschi, oh la serie delle divisioni fuori
del tempo. Dissipa tu se tu vuoi questa debole
vita che non si lagna. Che ci resta. Dissipa
tu il pudore della mia verginità; dissipa tu
la resa del corpo al nemico. Dissipa la mia effige,
dissipa il remo che batte sul ramo in disparte. [….]
Nella sua raccolta più nota, Variazione belliche (1964), il suo linguaggio esplode e subisce influenze ermetiche e l’irrequietudine di raffiche di immagini e azioni sottoposte alla mercé del flusso inarrestabile della violenza della Storia. I corpi che emergono sono simili alle carcasse dimenticate fra i relitti di un naufragio, come la natura presente nella poesia La bufera di Montale. Eppure, quella natura è ancora in grado di comunicare con l’uomo, il quale a sua volta, pur nella crudezza e nella caducità della sua condizione, si impegna a cercare l’amore nella donna e pone domande di senso.
In Rosselli queste ipotesi decadono, di fronte all’energia primordiale del linguaggio surreale ed espressionista che dispone una materia verbale vivace, secondo una concezione del caos ereditata dagli studi musicali di Rosselli; questa abbondanza di suoni eleganti e atroci nella loro esuberanza, è del tutto priva di centro e di equilibrio.
Le poesie di Rosselli mi hanno così portata a mettere in discussione ciò che credevo della poesia, andando oltre l’affermazione categorica del poeta tedesco Clemens Brentano, secondo il quale la follia non è che la sorella sfortunata della poesia. Questa polarità così netta è in realtà stravolta da figure quali Alda Merini, Dino Campana e Sylvia Plath. Amelia Rosselli frequentò come traduttrice i versi di Plath e i testi di Emily Dickinson, non folle, ma senza dubbio eccentrica nel suo isolamento forzato, che si impose come una forma di ascetismo domestico, così da esplorare a dismisura il microcosmo nel quale era immersa.
Anche grazie alla malattia mentale, Rosselli intrattiene un rapporto privilegiato con il linguaggio e in esso, si sente alienata e abitata, insieme alle voci e agli spettri che esso sa evocare; eppure, non si può dire che la sua poesia sia più o meno folle, o più o meno valida, dopo aver calcolato una distanza ideale che la separi da una presunta norma o dalla schizofrenia, con la quale Rosselli ha a lungo convissuto.