La bellezza del borgo: tra riti e ricordo: MEZZANO
Il borgo come ricordo rappresenta lo spazio della memoria dove si distendono precisi riferimenti a una geografia mentale, a presenze umane che si muovono tra tradizioni e affascinanti “misteri”; azioni cadenzate da un ritmo di tempo impresso nella mente dello scrittore e reso attuale nella scelta dei tempi verbali che oscillano tra passato e presente. Così, agli occhi del lettore, attraverso la scrittura limpida e dettagliata di Bruno Trevellin, tutto un mondo si spalanca ricco di vivacità e umanità, suoni, intercalazioni dialettali, gesti, emozioni, sentimento nostalgico.
LA STALLA NEL BORGO
di Bruno Trevellin
Dopo cena, all’imbrunire, scendo giù al borgo. Al bar con locanda, dove alloggiavano i miei per la loro breve vacanza, mi mescolo come straniero agli uomini del posto. Loro sono seduti lì fuori già da un bel po’, ci sono bicchieri vuoti. Ordinano vino bianco e birra, io vado a prendermi dentro una grappa all’asperula e mi metto in disparte al solito angolo vicino alla porta d’entrata e ascolto come origliando i loro discorsi. Parlano di fieno e di lavori su al maso, di finferli e di porcini raccolti, andando al mattino presto in bosco, ben prima dell’arrivo dei villeggianti. Parlano in primierotto, un dialetto simile al mio, così posso capire tutto, anche se per loro rimango sempre e solo un ‘talian’, come tutti quelli che salgono da Pontet. Dentro in tre bevono, rimanendosene appoggiati al bancone. La barista li ascolta e con loro discorre. È una donna sulla quarantina e sembra che conosca in anticipo le ordinazioni di ciascuno.
Bevo a sorsi l’asperula e penso alla mucca che la mattina si era spinta a brucare fin sotto la porta di casa. Ne avevo dato l’annuncio lieto alle nipoti e mi ero avvicinato per scattarle un paio di foto col cellulare. Era una mucca piccola, pezzata di marrone e di bianco. Non si era spaventata come temevo, ma aveva continuato a brucare indifferente, serena, spostandosi di qualche passo ora di qua ora di là, ora un poco salendo ora un poco scendendo il pendio. Le bimbe erano felici di poterla vedere così da vicino, di poterla quasi accarezzare, di vederla così mansueta. La più piccola vuole sempre fermarsi a guardare le due alla greppia nella stalla vicino a casa, stalla ancora dentro al borgo, con tanto di cartello con precisazioni storiche per i turisti di passaggio, in italiano e anche in inglese, appeso alla parete esterna della stalla. Siamo stati proprio fortunati a prendere questa casa in affitto, l’ultima del borgo, lontana dalla provinciale. Al di sopra ci sono solamente prati e boschi e i suoni che arrivano sono sempre e solo quelli delle campane di Mezzano e di Imèr e quelli dei campanacci delle bestie al pascolo: pecore, capre, mucche.
In giro in queste giornate di agosto stanno tagliando l’erba, a breve seccherà e servirà come fieno. Un ragazzo ha lavorato l’intera mattinata a tagliare quella di fianco a noi e due donne hanno ribaltato per più di un’ora con il rastrello quella più giù, sul pendio ai piedi del bosco. Qui è ancora un altro mondo, quello che sarebbe piaciuto a mio padre e a mia madre. Le case del borgo, pur vicinissime tra di loro, hanno orti, broli e serragli, anche quelle in centro, quelle vicine ai negozi e agli alberghi, specie quelle più a valle verso il Cismon, ma abbondano anche le aiuole di fiori, i rosai e le vigne che si abbarbicano alle pareti fino ad arrivare agli spioventi dei tetti. Gli orti più belli sono però quelli ricavati sui declivi, quelli sempre ridenti al sole del mezzogiorno. Si mostrano per intero al passante.
Quando andavo in campagna, il nonno Toni mi lasciava portare le sue due vacche all’abbeveratoio, anche se ero allora ancora solo un ragazzo. Lo riempiva con secchi d’acqua attinta dal pozzo. Era fresca, pulita, buona da bere e le bestie vi immergevano liete tutto il loro muso. Mi piaceva quel lavoro, che mi faceva sentire già uomo fatto. Mi aveva insegnato anche a mungere, ma io avevo sempre paura che mi calciassero e così preferivo portarle ad abbeverarsi tenendole per la cavezza, che però doveva rimanere sciolta, che tanto loro sapevano lo stesso la strada e sarebbero arrivate all’acqua anche senza la mia guida.
Le sue erano due vacche enormi, molto più grandi di quella scesa fin sotto casa oggi o di quelle della stalla nel borgo. Con la coda scacciavano di continuo le mosche, che si posavano a centinaia sulla schiena e sulla testa delle povere bestie, facendole spesso sanguinare. Ce n’erano tante di mosche allora, anche in casa, un’infinità, e non bastava una pompata di ddt a farle sparire dalla cucina per più di una giornata. Il nonno le chiamava per nome le sue due vacche. Una era La Trevisana e l’altra La Venexiana. Per lui erano come delle donne di casa. Se ne stava spesso seduto in stalla sul treppiede e con loro si confidava. Quelle ascoltavano, lo guardavano, gli rispondevano con cenni della testa o con brevi muggiti. Diceva che loro lo capivano, che erano bestie buone più degli uomini e intelligenti.
Lui era contento di insegnarmi quel suo mestiere, pensava che tutto potesse ancora continuare, ma forse si stava accorgendo che tutto quel suo mondo se ne stava andando.
Puoi vedere il video, costruito appositamente per questa narrazione, si può accedere al Link
La voce narrante è di Antonella Panazzolo