Il ricordo del padre
Di Daniela Lucchesi
Il giorno in cui è morto mio padre
percorrevo l’autostrada per raggiungere l’ospedale. Le case, i capannoni industriali, la terra mi sfilavano davanti scomposti come se il consueto paesaggio si sgretolasse e mi franasse addosso. Ignoravo che i miei passi avrebbero perso adesione al terreno i giorni successivi, ignoravo che sarebbero state le ultime ore in cui l’aria entrava ed usciva dai polmoni esausti di mio padre.
Mentre sfrecciavo in autostrada pensavo ad un altro uomo. Il suo volto dai lineamenti arroganti si confondeva con quello di mio padre dall’espressione stanca e infinitamente dolce. Nel cielo slavato di quel giorno di metà dicembre le labbra di mio papà, vicino eppure già lontano, si distendevano in un sorriso e, in preda ad un strano presentimento, ho accelerato per accorciare la distanza che mi separava da lui.
“Ho visto solo stelle buone sulla tua pelle” nell’abitacolo della macchina la voce suadente di Cristina Donà “Mio amor, ripiegate le labbra e tornati al colore di prima, guardo fuori ed è l’alba”. Ricordavo le carezze delle mani brusche, eccitanti dell’Altro, sebbene la sua pelle fosse trafitta da ombre scure, simili a fenditure buie, non da stelle buone.
Improvvisamente sulla mia pelle di bambina, le mani di mio padre che mi sfioravano in una carezza timida e inceppata. Rivedevo la sua schiena imponente che tante volte avevo ammirato intimorita, senza osare pronunciare il suo nome per paura di disturbarlo, perché lo sapevo sordo ai miei richiami.
Il viso di un giovane uomo sorrideva a mia madre la prima sera che si erano conosciuti in quella balera più di 50 anni fa, affollata di donne con le gonne a righe svolazzanti e il taglio di capelli “alla Lollo”. Un ragazzo serio e compito, nel suo completo scuro ed elegante aveva scelto tra le tante quella donna dagli occhi scintillanti, radiosa nei suoi vent’anni. Li vedo. Mia madre che ridacchia con la sua amica mentre mio padre le si avvicina e le chiede con voce trepidante: -Vuole favorire questo ballo con me, signorina?- Lei annuisce e si lascia circondare la vita con un braccio.
Quel ragazzo dall’espressione seria e timida al contempo è la stessa persona sfinita che ritrovo nel letto dell’ospedale un’ora più tardi. Stento a riconoscere l’uomo che è entrato in questa stanza pochi giorni fa, con passo sicuro e la schiena dritta, con quest’altro che si consuma tra le lenzuola.
Una settimana prima era entrato nel reparto geriatria camminando fiero, le spalle erette, ma il cuore malato gli rubava l’aria e l’espressione del volto tradiva la stanchezza di un’attesa notturna snervante che avevamo trascorso insieme nella sala del pronto soccorso.
Verso la mezzanotte mi aveva detto: -Ora finalmente si decideranno a visitarmi e poi ce ne andiamo a casa e facciamo gli spaghetti con aglio e olio- ed io gli avevo stretto la mano e avevo sorriso con aria tesa notando come le parole incespicassero tra i denti e il respiro fosse sempre più greve man mano che passavano le ore.
Lo vedevo già affaccendarsi in cucina, riempire una pentola d’acqua e metterla sul fuoco a bollire, imbiondire l’aglio nell’olio mentre io apparecchiavo e mi sedevo al posto che aveva sempre occupato mia madre. Gli avrei chiesto un parere sulla politica internazionale solo per il gusto di sentirlo parlare lentamente, soppesando le parole, con quel suo lieve accento toscano che amavo tanto, il lessico ricercato e la luce soffusa delle lampada nella stanza un po’ trascurata, il muro chiazzato, le pentole incrostate, i piatti spaiati. Ancora una volta mi sarei adagiata in quel bozzolo, una specie di nucleo protettivo. Le pareti sarebbero divenute morbide come quelle di un nido, la sua voce lunare e tiepida mi avrebbe avvolta come una carezza.
Con stupore avrei sentito le nostre corde profonde vibrare all’unisono come non era mai accaduto in passato, quando ero una bambina o una ragazza avida del suo sguardo su di me e gli scivolavo accanto con passi e gesti attutiti, quando i nostri incontri si limitavano ad un frusciare di vestiti nel corridoio angusto e nulla più.
Sarei stata felice del pericolo scongiurato nella nostra cucina dimessa.
Invece nella stanza dove l’avevano fatto accomodare c’erano tre anziani adagiati su letti stropicciati e insonni, gli occhi semichiusi nelle prime ore del mattino, l’aria smarrita, i corpi simili a dei fagotti abbandonati. Mio padre era forte, non l’avresti definito un vecchio, perfettamente padrone di sé, ammiravo la fierezza del suo incedere e l’eleganza dei suoi gesti mentre piegava i vestiti e li riponeva nell’armadietto. L’ho salutato con un bacio leggero e sono corsa a casa in un’altra città, alle prime luci dell’alba. Credevo fosse solo una crisi cardiaca dalla quale si sarebbe ripreso come le altre volte.
Sono tornata a trovarlo il giorno dopo e poi quello successivo notando giorno dopo giorno la metamorfosi di un corpo che si avvicina precipitosamente alla fine. Il terzo giorno ha rifiutato il cibo con assoluta ostinazione, il corpo gli si affossava tra le lenzuola come un oggetto scomodo, le parole, lucidissime, ma appena udibili, sembravano graffiargli la gola, gli occhi inquieti e vividi, perfettamente coscienti.
Alcuni anni prima avevo riconosciuto la stessa imminenza nel corpo tremante di mia madre e nei suoi occhi smarriti nel delirio e mi ero detta che quando sarebbe toccato al papà, gli sarei stata accanto con tutto l’amore e la serenità di cui fossi stata capace.
Ma in quei giorni un tarlo mi rodeva l’anima, l’Altro occupava i miei pensieri in modo inopportuno. Mi aveva esclusa dalla sua vita: – Scusami, ho bisogno di eclissarmi per un po’, è meglio se non ci vediamo, mi faccio vivo più avanti-. Un messaggio secco che non ammetteva repliche. Eclissarsi… Mi ero immaginata un’ombra scura che si allungava sul suo volto e poi sul suo corpo massiccio fino ad inghiottirlo. La terra si era spalancata di fronte ai suoi piedi e lui si era dileguato al galoppo di un cavallo nero come Ade, lasciandomi sola nella luce di quel cielo slavato di dicembre a chiedermi cosa fosse successo. Mi faccio vivo io. Già, tu sei morto per me.
E non sono riuscita a starti vicina come avrei voluto. Mi aggiravo nervosa, incapace di sopportare il dolore e quel senso d’impotenza devastante, tra i corridoi del reparto di geriatria che sapevano di cloroformio e di un odore indistinto di morte che si approssimava. Non ti riconoscevo più in quel tuo corpo scavato che aveva deciso di arrendersi in pochi giorni. Le ossa scricchiolanti, la pelle avvizzita e il respiro, un sibilo fra i denti.
Io non potevo perderti. Non potevo rassegnarmi. Non ero pronta, né mai lo sarei stata, a perdere qualcuno che non avevo mai posseduto. Succede sempre così con gli uomini importanti della mia vita, mi vengono sottratti senza preavviso.
E non ero capace di stare lì con te. Ti sedevo accanto per brevi momenti, percorrevo il corridoio su e giù, le dita strette sul cellulare nella tasca, nel caso arrivassero messaggi dal regno oscuro in cui quell’Altro era precipitato e ripensavo ossessivamente a ciò che era accaduto negli ultimi mesi. Svisceravo gli eventi, le parole e i non detti tra noi.
Mi arrovellavo senza comprendere perché in realtà non vi era nulla da comprendere se non la sua spietatezza e la mancanza di rispetto in un momento così delicato della mia vita. Intanto ogni respiro di mio padre segnava il ritmo di un tempo che inesorabilmente giungeva alla scadenza.
E’ stato una tiepida giornata invernale il tuo ultimo giorno sulla terra.
Credevo che il tempo fosse ancora generoso con noi e ci avrebbe concesso molti giorni ancora e non ti ho detto quanto ti amavo. Mentre tu tossivi, imploravi la morfina, qualcosa che sedasse quel tuo stare nel mondo così affannato. Ed io ero stanca di supplicare le infermiere trafelate e indifferenti.
Non riuscivo nemmeno ad abbracciarti, temevo che non avrei tollerato la nostalgia di te che già appartenevi ad un altro mondo, la sentivo fremere in me.
Fissavo il tuo letto dove si agitava un corpo contratto e agonizzante che non era il tuo, non potevo pensare a quel giovane dalla pelle bianca e liscia che il tempo si era portato via, all’uomo che sei stato, onesto, schivo e mite.
A quel padre che mi amava ma per pudore non me l’aveva mai detto.
E neppure io te l’avrei più detto. Il tempo è un dio breve.
Guardavo le tue mani affusolate, quelle erano ancora tue, la pelle candida, leggermente chiazzata, le unghie ben curate. La loro eleganza abbandonata sulle lenzuola sgualcite mi commuoveva, così come la tua voce gentile che si affievoliva sempre più.
Avrei voluto fotografare le tue mani, registrare la tua voce. Non l’ho fatto.
Nelle tue ultime ore, in cui mi trascinavo smaniosa nei corridoi, avevo voglia di fare l’amore e avevo fame, una fame vorace. Dicono che sia un effetto dell’attaccamento alla vita, un modo di combattere la morte da parte dei vivi l’aggrapparsi agli istinti biologici primari. Ho chiesto se potevano consegnarmi il tuo pasto anche se tu certamente non avresti mangiato. Già assaporavo la pasta scotta al pomodoro e magari una porzione di fesa di tacchino e la purea melmosa di patate che sa di burro e sale. Ho mangiato tutto, insaziabile.
Avevo appena finito di ingurgitare l’ultimo boccone che mi hai chiamato, gli occhi rivolti al cielo, ubbidivi ad un richiamo che solo tu udivi. Ti ho supplicato di non andartene. Erano ancora tante le cose da dire, da fare insieme, mi pareva di non averti dimostrato abbastanza il mio amore, volevo che tu fossi ancora orgoglioso di me negli anni a venire. La morte non poteva condurti via, in un istante, lontano da me, mentre guardavo le tue mani. Mi avevano dato poche carezze ed io ne pretendevo ancora.
Mio padre ha scelto un lunedì di dicembre, il 15, lo stesso giorno in cui è nata mia madre, per andarsene.