Viaggio tra i Borghi di Italia: Ostuni, terra antica
di Paolo Farina
Legge Annamaria Longhin
Terra antica,
terra rossa, ricca d’argilla, rossa, come il sangue che devi sputare per lavorarla: lo stesso che ci ha sputato tuo padre e il padre di tuo padre. Terra di sacrifici, ma che non t’abbandona mai, la tua terra.
Ad essere precisi, sei tu che appartieni a lei, a tempo determinato. Ti viene affidata per 20 o 50 anni, un decennio in più o in meno fa poca differenza. La lavori e ti dà frutti, ma sei solo un amministratore pro tempore, e te lo devi ricordare, almeno di tanto in tanto. Altri l’avranno, dopo di te, e a loro volta la lavoreranno, ne raccoglieranno i frutti e crederanno d’esserne i padroni, salvo poi a far posto a chi li seguirà di lì a poco.
Guardi i tronchi secolari di ulivo, nella piana che porta alla marina. Insegui con lo sguardo i solchi scolpiti dal vento, ti appaiono identici a mezzo secolo fa, ma sei tu ad essere cambiato. Rimani interdetto al pensiero che hanno secoli di vita alle spalle e che, generazione dopo generazione, sono stati curati da bambini divenuti nonni che li hanno affidati ad altri bambini, che sarebbero a loro volta invecchiati su quei rami, fra quei tronchi fatti oggetto di tanto amore, innaffiati dal sudore, generosi nel donare un nettare verde come la speranza, giallo come l’oro. E di oro puro si trattava, per i poveri contadini di ieri che si nutrivano di pane e olio, pane e olive, focacce condite con olio, olive e, naturalmente, pomodori rossi.
È terra di colori, la mia terra, anche se la chiamano “Città bianca”.
Al verde, ora chiaro ora scuro degli olivi, al rosso della terra, si somma l’azzurro del cielo, che si congiunge al mare in una linea indistinta per chi dallo stradone libera lo sguardo fino all’orizzonte. Ti torna in mente quando, da bambino, ti capitava di perderti nel bosco di san Biagio o nella macchia mediterranea di Lamaforca. Ambienti diversi, accomunati da un silenzio capace di affascinare e atterrire, luoghi in cui, al viaggiatore che ha dimestichezza col silenzio, la natura confida qualcosa della sua misteriosa essenza, del suo persistere uguale a se stessa, a dispetto del tempo. Non c’è bisogno di credere all’Eterno per cogliere in questi luoghi una Presenza.
Terra antica, la mia terra, anche se il suo nome significa “città nuova”.
E se ci si avventura tra le stradine del centro storico, nel quartiere che per i paesani si chiama semplicemente “la Terra”, è impossibile non smarrirsi nel dedalo della memoria. Può capitare a chiunque di sentirsi un conquistatore di angoli ignoti: visuali che ora si stringono nell’accecante candore delle pareti a calce, ora si allargano in prospettive vertiginose, con squarci di terra e mare che mettono addosso la voglia di partire e, al tempo stesso, il conforto di restare: guardare lontano, ma protetti da mura antiche, come tra braccia materne.
Terra di storia a tinte forti, talora fosche, la mia terra, ma anche terra calda e accogliente. Anche quando l’abbandoni, quando parti sapendo già, in cuor tuo, che non è sicuro che ci tornerai. Resta sempre la tua terra.
La mia terra.
***
Correva il febbraio 1967, quando Silvio Carrino compose la poesia Stune mia. Il testo, musicato da Rosario Bruno, fu cantato per la prima volta da Lillo Rapanà. Il 15 maggio dello stesso anno, Lillo si esibì sul palcoscenico del Cineteatro “Roma”. Qualche mese dopo, la mia terra diveniva anche per me Stune mia.
Il ritornello della canzone faceva così:
«Stune, Stune mia, quande sì care,
cumme vuleva sta sèmbe cu tté,
ce pe nnu giurne m’allundàne, amàre,
te porte jinda llu core sèmbe cu mmé.
Stune, Stune mia, sèmbe cu mmé!»
Vai al video, costruito per questo racconto poetico, al link: