Il borgo che non c’è.
Io sono una senza radici, come quelle piante che galleggiano in acqua e si lasciano trascinare dalle correnti, vagando senza mai fermarsi in un posto fisso.
Per via del lavoro di mio padre, mi sono spostata spesso durante la mia infanzia ed adolescenza, senza avere il tempo di attecchire sui muri, come la parietaria.
Non ho luoghi del cuore, dove mi rifugiavo da piccola e dove correre con la memoria per trovare riparo dalla malinconia, lasciandomi cullare dalla nostalgia.
Forse perciò mi ha colpito un borgo fantasma, dove i ricordi possono essere un po’di tutti i luoghi e di tutte le persone, dove non c’è una realtà odierna ma solo lo spettro di un passato che ritorna leggero ed evanescente.
È il borgo di Apice vecchio, in provincia di Benevento.
In realtà il paese è stato spostato negli anni ottanta per ragioni di sicurezza, ora in parte è stato ristrutturato, insieme al castello dell’Ettore, sede di mostre e attività culturali.
Poi c’è la parte da guardare attraverso i cancelli, incarcerata perché pericolante, in cui non si può entrare appunto.
I vicoli stretti e bui, dal lastricato scuro, polveroso, ma compatto di terra e pietre, schiacciato dal camminare dei secoli, si intrufolano fra le case fumose e sbilenche, come le schiene curve degli anziani, piegate dagli anni.
Dagli occhi tetri delle finestre, coi vetri spaccati dalle cime aguzze, si vedono soffitti a metà o interamente crollati ed il cielo che sprofonda in pochi veli di luce, in basso nel buio del pianterreno, fra le macerie e le travi spezzate, poggiate nell’ombra dei muri.
Balconcini coi ferri delle ringhiere ritorte e rugginose, che ancora ricordano ricami ed onde dell’originale ferro battuto.
Grossi portoni scuri di legno vecchio, crepati e gonfi, incastrati sotto i loro archi, sormontati da fregi irriconoscibili, ormai levigati dal vento.
Lampade dondolanti, appese incerte ai fili della corrente, come cappelli svolazzanti al vento.
Intorno le lunghe braccia verdi della vegetazione, che stritolano muri, strisciano nelle fenditure, vengono vomitate dalle finestre e dai portoni, fagocitando lentamente tutto.
Ma solo qui risuonano ancora voci e rumori, se si vogliono ascoltare.
I passi di vecchie calzature povere, di stivali, ciabatte o i piedi scalzi dei bambini, che schiaffeggiano il selciato. Le loro voci trillanti ed il richiamo delle madri. La conta del nascondino e la litania della campana saltata ad un piede o a piè pari, lo scivolare di una palla fatta di stracci rincorsa da cento gambe.
Le serenate sotto i balconi della sposa, le canzoni urlate per strada dai carrettieri e dai venditori, le chiacchiere a mezza voce delle comari, nascoste negli angoli delle strade.
Il battere del ciabattino, le ruote dei carri e gli zoccoli lenti dei somari e dei buoi che le trascinavano.
Le serate nell’aia, suonate di organetti e armoniche a bocca, i balli saltati reggendo le gonne e gli amori confessati con gli sguardi.
Il vespro, in chiesa tutte le donne col capo coperto ed il rosario intrecciato fra le dita.
La semplice remissività al destino, al volere di Dio, che non posso né voglio giudicare, ma che sicuramente era spesso la sola ancora a cui aggrapparsi.
Questo è lo spettro di un ricordo, col suo fascino ammaliatore, perché fa parte di noi, delle nostre radici.
Il fantasma di un passato che ci viene tramandato dai racconti dei nostri avi che noi, se facciamo attenzione. possiamo vedere con i loro occhi e ascoltare con le loro orecchie. Anche se non lo abbiamo vissuto è impresso in noi, nel nostro DNA e ci è stato donato.
Guarda il video, costruito per il borgo di Antonella,al link:
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