“Guerra senza pace”
Subire gli eventi, o fare delle scelte? Vittime delle aspettative degli altri, della nostra inadeguatezza, o protagonisti della nostra vita?
Grazie, davvero, a Patrizia Anconetani per questo mirabile scritto che scuote le nostre coscienze
Guerra senza pace
Ascoltiamo la voce di Patrizia, dal timbro interessante mentre leggiamo il suo scritto, al link:
Stamattina non riesco proprio a dormire, anche se ne avrei bisogno.
La notte è stata lunga e quasi senza momenti di pausa tra un servizio e l’altro. Un breve sonno alle tre, poi il suono del telefono e di nuovo fuori in sirena.
Non riesco a dormire perché mi preme nei pensieri il bisogno di scrivere quello che ho visto e quello che sento. Parlo di guerra, insegno, conosco le convenzioni e i principi del Diritto Internazionale Umanitario, li studio, mi aggiorno, leggo documenti e vedo video.
Ma io non so nulla, non so davvero nulla.
La verità passa negli occhi di Farida, una donna di 25 anni, una ragazza, caduta in strada perchè da sola, sotto la pioggia, stanca e con una bambina.
La bimba è sua figlia, di 5 anni, vestita con una improbabile tutta da sci ed il pigiama di flanella sotto, tutto quello che può servire a scaldare il piccolo corpo.
Che ne sappiamo noi del freddo e della paura, di viaggi che sono fughe dalla privazione dei diritti, della pioggia senza un tetto sopra la testa, del tempo così lungo per raggiungere la libertà che si confonde nei ricordi, di cosa significa essere in un posto di cui non conosco la lingua e dove non so neppure chiedere.
Soprattutto se il mondo da cui veniva, prima che diventasse prigione di stato e privazione dei diritti per le donne, era il luogo di una vita bella, di possibilità e progetti.
Parto dall’inizio.
Ci chiamano per caduta in strada, polizia sul posto. Il pregiudizio arriva prima, sarebbe già il secondo caso di intervento dall’inizio del turno, su persona che ha un po’ ecceduto con l’alcool e si è messa in strada cadendo.
In questo caso però ci troviamo sul piazzale della stazione ed a chiamare è la stessa Polizia ferroviaria.
Stiamo per scendere dal portellone laterale che già il poliziotto ci intercetta parlando piano e ci presenta la situazione: c’è una minore, la persona che è caduta è una giovane donna, parla solo pashtun, è molto spaventata. Per fortuna è venuto ad aiutare un ragazzo che sta facendo da interprete.
Ci avviciniamo, la ragazza è vestita di bianco e panna, raggomitolata su se stessa contro la parete d’avanti della stazione, dove un muro fa angolo e la tettoia protegge dalla pioggia. I capelli sono bagnati, è tutta bagnata, anche la giacca in panno di buona fattura sul fianco sinistro, dove è caduta, è piena di sassolini piccoli grigi di asfalto. Non vediamo il viso, si è fatta una corona delle braccia e delle mani, mani belle e fino a poco tempo fa certo curate, le unghie regolari, rosa pallido. Me la immagino prima di lasciare il suo paese quando le cose andavano ancora bene, correre con la piccola per mano, sorridere con i sorrisi che brillano di queste donne dagli occhi grandi e scuri.
Tira su la testa come se dovesse sollevare il mondo, stanca, gli occhi socchiusi, ci guarda un po’ smarrita e si vede tutto assieme quanto è giovane.
Di fianco a lei la bambina è piccola con lunghi capelli neri e un visetto da pubblicità, di fianco un ombrello zuppo di pioggia, due buste di cui una di carta con fogli mezzi colorati e avanzi di un panino ormai freddo. Possibile che tutta la loro vita di adesso sia dentro a quelle due buste?
Il ragazzo ha i capelli bagnati anche lui, forse l’ ha aiutata ad alzarsi ed arrivare a ripararsi lì. Ha la maglia un po’ unta, un cartellino che pende. Lavora al Mac, forse ha chiesto un permesso, è un po’ timido ma molto protettivo con la ragazza, si da da fare a farla sentire tranquilla, con una mano cinge le piccole spalle della bambina. Traduce e rassicura, i poliziotti osservano anche loro con lo sguardo serio. Forse pensano alle loro figlie grandi che sono a casa a vedere la tv o al pub con gli amici universitari alla stessa età o a quelle ancora bambine al caldo nella mezzanotte in un piumino soffice con gli unicorni rosa, abbracciate ad un pupazzo morbido o con il gatto acciambellato di fianco al letto, con un mezzo sorriso disegnato sulle labbra.
Quando si parla di migranti manca sempre buona parte della narrazione, il pregiudizio e la generalizzazione inghiottono come un buco nero tutti i contorni, appiattiscono attorno ad un modello funzionale ad ideologie contorte, il più delle volte lontane dalla realtà. Le persone che fuggono affrontano viaggi penosi, senza certezza di arrivo e di salvezza, per terra e per mare, separandosi per dare ai più vulnerabili la precedenza, cercando di mettere al sicuro chi si può, spesso senza riuscire nemmeno a seguirne gli eventi.
Quando si parla di persone che fuggono da qualcosa di così difficile ci si dimentica degli sguardi smarriti, delle mani gelate e dei vestiti bagnati, dei capelli appiccicati al viso e della notte che per una donna così giovane e per una bambina potrebbe essere lunghissima. Ogni volta.
La paura ogni volta, per se e per chi si dovrebbe proteggere, senza riferimenti attorno, senza posti davvero sicuri.
Che cosa ha scelto Farida? Lei con quell’eleganza che le è rimasta addosso, a raccontare una storia che poco si accorda con il corpo raggomitolato e schiacciato contro il muro freddo. Lei è venuta qui con questa bimba piccola e perfetta come una fatina nella sua tutina da sci, per darle una ipotesi di futuro, per salvarla da veli che l’avrebbero coperta al punto da nascondere il sorriso e gli occhi e darle la possibilità di scegliere, di frequentare le scuole dell’occidente, diventare un domani quello che vuole e non quello che altri sceglieranno per lei.
Quante volte ho sentito le frasi assurde di chi li pensava ricchi perchè avevano un telefonino senza capire che quello era lo stargate per il passato e gli affetti sempre più lontani in questo mondo nuovo, ancora percepito ostile.
L’interprete chiama qualcuno con il telefonino della ragazza e poi glielo passa, lei abbozza un accenno di sorriso, intanto noi ci prepariamo a farla salire in ambulanza. Prenderemo lì al caldo tutti i parametri, abbiamo già acceso il riscaldamento, faremo un’eccezione, ma stavolta non abbiamo scelta, dobbiamo esserci tutti, lei, la bambina e l’interprete. Parlava con suo marito, l’interprete dice che lui è ancora in Bosnia, ha pensato prima a mettere in salvo lei e la bimba, avrà 25 anni anche lui, e già è un uomo che deve pensare a mettere in salvo qualcuno senza sapere se il viaggio finirà bene. Penso che lei è in Italia da un mese mentre lui è ancora chissà dove e in che condizioni.
Noi prendiamo un aereo e in un paio d’ore o poco più raggiungiamo destinazioni, magari lamentandoci se il servizio bar non è compreso. Lui chissà che viaggio starà facendo, forse è rimasto intrappolato nel freddo gelido di un campo profughi tra due paesi al confine che sta cercando di attraversare tra boschi nella nebbia sotto il tiro di chi vuole impedire il passaggio.
La giovane sale in ambulanza, niente di rotto, si muove bene, ma ha male alla testa, il cuore le batte troppo forte ed ha male al braccio sinistro, dove è caduta, alla spalla ed al fianco, ha paura che il cuore stia male, l’interprete traduce.
Prima che partiamo i due poliziotti ci si avvicinano, ringraziano il ragazzo che ha aiutato con la traduzione, e serissimi ci dicono: “se stasera non riescono a risolvere per trovare un posto in cui dormire ci raccomandiamo che ripassi qui da noi domattina e cominciamo a vedere se troviamo strutture di accoglienza”.
Quando proviamo a misurarle la pressione sentiamo che è letteralmente congelata. La bimba invece è calda, dolcissima, si fida delle persone, si lascia prendere per mano, Catia la tiene in braccio durante il percorso, l’interprete è seduto di fianco, avanti alla barella, io dietro compilo i dati dal suo documento. L’autista va pianissimo. Sembra di muoversi su una nuvola.
Continua a toccare con la mano il braccio sinistro e poi indica il cuore. Il traduttore ci spiega che lei ha paura perchè sente il cuore che corre ed ha male al braccio.
Scendiamo avanti al pronto soccorso, il piccolo gruppo inusuale, Federico che spinge la barella, Catia che tiene per mano la bimba ed io che ho preso la cartella li seguo. Vorrei poter scattare una foto, è come se vedessi da dietro il sorriso dolce ed accogliente di Catia e quel visetto spaurito che si apre in un timido sorriso, di fianco a quella minuscola bambina sembra un gigante, tutto attorno a lei sembra gigantesco per quanto è piccola.
Ci fanno andare direttamente in area rossa, la bimba sempre per mano. Da una stanza, dietro ai fili attaccati al corpo di qualcuno, mi raggiunge lo sguardo di disapprovazione di una dottoressa, Certo che non è il posto per una bambina così piccola, ma non ha nessuno che possa tenerla, nella sala d’aspetto, e lei vuole essere vicino alla sua mamma. Le faccio un mezzo sguardo verso la bimba, allora lei capisce. In un attimo capisce, e lo sguardo diventa serio, preoccupato. Le parliamo con dolcezza mentre gli altri mettono la mamma nel letto, dice qualche parola in inglese, il suo colore preferito è il blu, ama colorare, ma soprattutto ama la mamma, ed il papà che arriverà presto.
Il ragazzo che traduce sorride per la prima volta con un sorriso grande, le dice qualcosa mettendole il telefonino vicino all’orecchio. Il sorriso che sboccia sul volto della bambina è bello, i denti piccole perle luccicanti, come gli occhi, all’improvviso gioiosi. “E’ la nonna”.
Penso a questa magia che una volta non c’era, di legare con fili lunghissimi persone lontanissime, in tempi immediati, di mostrare volti ed espressioni quasi, quasi va detto, come se fossero vicini a noi davvero. La routine dei controlli parte ma le dottoresse e le infermiere sono venute vicino, dolcemente, è spuntata una sedia, sono comparsi fogli bianchi e pennarelli. In questo trono troppo grande la bimba stringe i colori e traccia segni senza perdere di vista la mano della mamma che da sopra la sponda del letto le fa piccoli scherzi con le dita per ricordarle che c’è è va tutto bene.
Andiamo via, come sempre senza sapere cosa succederà dopo, andiamo via tranquilli perchè attorno a questa situazione si stanno muovendo molte energie e ricerca di soluzioni.
Questa notte di pioggia ci lascia addosso un senso di freddo, umido, dolcezza e disperazione assieme.
Non passa molto tempo che ci chiamano di nuovo in centro. Qualcuno ha visto una persona in difficoltà sotto i portici. Arriviamo e lo vediamo lì, stretto dentro ad un poncho impermeabile, i capelli appiccicati, le dita gonfie, il volto una ragnatela di rughe profonde ma gli occhi raccontano di un’età diversa. Il fetore che emana è insopportabile, davvero troppo, ti resta addosso anche se sei ad un metro di distanza.
Non comunica in nessuna lingua, dice solo “Ucraina, war, war….”. Uso il traduttore del telefonino, il mio “come ti chiami” diventa una sequenza di simboli in cirillico, lui si scuote per un attimo e legge, Petru. Abbiamo un nome. Non ci dirà altro, non vuole nulla, fa segno indicando il cielo, che se ne va, poi con la mano un segno come per dire “domani”, non gli importa di una notte al caldo, di un luogo in cui rifugiarsi, si è arreso ad una guerra ormai lontana che si porta dentro.
E come ho scritto all’inizio di questo pezzo, noi della guerra e del senso della fuga per trovare un domani accettabile, non sappiamo nulla. Siamo bravi a giudicare, a cercare alibi per condannare senza processo, a dividere il mondo tra quelli che hanno i diritti e quelli che non li hanno, quelli che hanno i doveri e quelli che… Dipende.