Born To Be Online

GESUALDO CUCÈ

di Lucia Corsale

Lo chiamavano “U maistru”, Gesualdo Cucè, cinquantasei anni fatti, cantava, la chitarra in mano, lungo le vie del quartiere. Di lui si sapeva picca e nenti, professore di lettere al liceo, un forte esaurimento, un calcio alla scuola, ai parenti più stretti. Veniva da un paese lontano dove il freddo tràsi dintra l’ossa, lo scuro scende di prima sira, il tram è carico di solitudini e desideri. Padre e madre comunque erano nati nella Sicilia, di facci al mare, dove spira sempre vento, dove il sole allonga i raggi e duna arsura.
Gesualdo abitava in via Piave, dorsale della Borgata, fioritura di mastri, botteghe e assai case della stessa misura. Era sottile di corporatura, profondi occhi castani, la scriminatura di lato e un dolore grande nel petto.
La gente gli voleva bene, non mancava una visita a cena, una prumissa, una bona parola, un bacio non dato. Gesualdo era contento, stelle luminose negli occhi, un sorriso di ringrazio e cercava il letto. La Madonna dei sette dolori a capizzu, il segno della croce, una preghiera smozzicata, un rosario di santi, angeli, arcangeli a cui più non credeva. C’era il vino padre dei miracoli a scancellare il passato, che il presente è nebbia e il futuro è chimera. C’era la moglie, Gianna, un corpo insaziabile adorno di pizzi e oro, la fede nuziale nel pozzo, al diavolo il decoro. C’era il figlio, Emanuele, all’ombra d’una quercia, l’occhi svacantanti di vita, il cappio al collo un pomeriggio di primavera. La notte così gli portava scompiglio, un fascio di sonno e ombre, morsicature di sogni, canzoni stonate. Al mattino, cu-ll’occhi ancora cisposi, i capelli pesti, si trascinava alla cucina e giù il primo bicchiere. Poi, l’acqua fresca sul viso, la strada a piedi, una cascata di note e parole a scancio di pane, un soldo e briciole d’amore. Donava perle di repertorio, nomi insigni e accenti rubati: Fabrizio De Andrè, Lucio Dalla, Pierangelo Bertoli.
S’annunziava strimpellando la chitarra, il cristiano s’affacciava, Gesualdo si schiariva la voce e spremeva un canto.
Nella via Pasubio, sperticata, la casa scrostata e gatti sui tetti, ci travagghiava Pamela, gonnellina all’anca, i seni debordanti a pera, occhi cerchiati d’ombretto, due passate di rossetto e una bionda criniera. Gesualdo la guardava e si scioglieva. La chiamavano bocca di rosa metteva l’amore, metteva l’amore… La chiamavano bocca di rosa metteva l’amore sopra ogni cosa.
Pamela, masticando la gigomma e strammando il nome: <>
<> Il giro era longo, masennò non ci arrivava.
Nella via Isonzo, una casuzza pittata di friscu, la cimasa scolpita cu fiori, frutta, erba angelica, ci travagghiava Valeria, occhi scuri lucenti, ornamenti di boccoli, scavava la mente, sbrogliava i mali pinzeri.
Gesualdo la guardava e si scioglieva: Cosa sarà che fa crescere gli alberi, la felicità, che fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento.
Valeria le mani protese, una carezza sul nome:“Gesualduccio, entra, ti dò una mia parola, un testo di canzone, una moneta se non ti reca offesa.”
<> Il giro era longo, masennò non ci arrivava.
Nella via Ragusa, na macchia di umido alla parete, un bancone di lignu di traversu, ci travagghiava Ernesto, saraghi, orate in bella mostra, pisci di scogghiu e cavaleri.
Gesualdo lo guardava e si scioglieva: Pesca forza tira pescatore pesca non ti fermare poco pesce nella rete lunghi giorni in mezzo al mare.
Ernesto, le mani sfregate nel grembiale:<>
<> Il giro era longo, masennò non ci arrivava.
Quel giorno tornò nel quartiere Girolamo Santanchè, avvocato civilista, titoli, palazzi, poderi e l’aria di continente.
<>
<>
<>
La disputa andò avanti a colpi di carta bollata, appelli al sindaco, ai carabinieri.
Gesualdo, puntellato da mastri, operai, indovini, sulle prime non s’arrese.
<>
<>
L’avvocato, così, prese a insultare la gente del loco. La troia – non più bona per le sue oscene pretese – arrecava fastidio cu sospiri, lamenti e, poi, la fila d’omini, vecchi, picciotti, pronti a godere.
La psicologa – non più idonea ad alzargli l’umore – minacciava l’incolumità del quartiere e, poi, la corte di pazzi usciti di senno, cin cin alla morte, al Signore, a uno stormo di gnomi, pagliacci al potere.
Il pescivendolo – non più fornito a dovere – non pesca a regola, a scancio di reti ci cala il veleno e morunu pisci, u mari s’appesta.
Il povero Gesualdo si pigliò di pena. <>
<>
<>
<>
Gesualdo, però, suffreva, lo sguardo senza guizzo e colore, la barba lunga e incolta, i capelli senza ciuffo né piega.
<> – lo incitavano in coro – ma Gesualdo non voleva cantare.
Quando la morte mi chiamerà nessuno al mondo si accorgerà che un uomo è morto senza parlare senza sapere la verità, che un uomo è morto senza pregare, fuggendo il peso della pietà.
La chitarra, il bicchiere riverso, l’ultima canzone.

Exit mobile version