Born To Be Online

#evaminore

di Cinzia Anna Tullo

Aprì la finestra osservando lo scampolo di azzurro che si sfilacciava tra la folla dei palazzi. Nell’aria la primavera cominciava a spandersi lenta, come uno schizzo d’ olio che si allarga sul ripiano della cucina.

Le donne ai balconi stendevano coperte al sole.

Per strada passava poca gente, ma l’odore della merce del pescivendolo dietro l’angolo già si faceva sentire, puntuale e pungente come ogni mattina.

Il cane bianco, legato a una catena, in un cortile poco lontano, abbaiava rabbioso, reclamando cibo, acqua e libertà.

Era tutto così noto, colori, rumori, odori, per Eva, che abitava là dalla nascita. Il giorno delle nozze aveva sperato in un cambiamento, ma era stato di breve durata. I genitori se n’erano andati di lì a poco e Rocco aveva deciso che la vecchia grande casa era quella giusta per trascorrerci il resto della vita.

Aprì lo sgabuzzino di alluminio anodizzato, incuneato in un angolo del balcone e si munì di tutto quello che le serviva per fare le pulizie.

C’erano giorni in cui proprio non le andava, ma l’abitudine aveva sempre il sopravvento e come uno spiritello maligno le entrava dentro e la spingeva a lavare, spolverare, lucidare.

Mentre lo faceva, la mente disegnava paesi lontani, profumate distese di lavanda, terrazze a scala gonfie di uva matura.

Se solo ne fosse stata capace! Avrebbe preso il volo, sarebbe partita e avrebbe raggiunto il mondo! Nei giorni più caldi, la fantasia proiettava altre immagini: capanne su spiagge tropicali, onde cristalline, ghirlande floreali intorno al collo. Aloha!

Da quando mamma e papà se n’erano andati, portandosi via carezze e parole, più forte sentiva il peso della vita e di un matrimonio soffocante. Più lacerante la feriva la totale mancanza di protezione dagli scatti d’ira del marito.

Non aveva ancora alzato le mani su di lei, ma sempre più spesso le urlava parole dure e le ripeteva che le avrebbe dato il fatto suo, non fosse stato per il timore di rovinarsi con una condanna penale. Non valeva la pena inguaiarsi per una come lei, borbottava. Per lei, così stupida e insignificante.

Che fatica andare avanti così!

La domenica mattina, seduto al tavolo in cucina, controllava puntigliosamente gli scontrini della spesa settimanale. E ogni volta trovava da ridire.

Eva, mortificata, restava muta, gli occhi fissi sui fiori rossi della tovaglia di plastica.

Ma da alcuni mesi, il silenzio delle parole era diventato il controcanto di pensieri che bisbigliavano un segreto.

Che sarebbe successo se Rocco l’avesse scoperto? Cosa, se avesse saputo di quei diecimila euro, trovati in una busta gialla, sul fondo del cassone di legno in camera da letto?

Quel piccolo tesoro tutto suo le apriva scrigni di nuove fantasticherie. Non passava giorno che non progettasse di sparire e di non tornare mai più. Certo, quella cifra non era abbastanza per rifarsi una vita, ma per prendere il volo sì. Poi avrebbe potuto trovare un lavoro. La mattina si sarebbe svegliata senza quell’orecchietta al cuore e il pomeriggio non avrebbe più guardato l’ora con inquietudine, in attesa che Rocco si ritirasse.

Era una perenne agonia l’incertezza dell’umore di lui. Rabbuiato, stranito, nervoso? Sarebbe esploso in una crisi di rabbia, come quella volta che aveva rotto, uno ad uno, tutti i piatti del servizio buono o, immusonito, avrebbe passato il resto della serata, guardando la tv, senza dire una sola parola?

Eva aprì la cassa e controllò che i soldi fossero sempre là. C’erano, e come diavoletti tentatori le sussurravano: “Forza, andiamo via insieme!”.

La strada si era animata. Gente felice, così le apparivano tutti, riempiva i marciapiedi. Vorrei essere come voi, pensò con un gomito sul davanzale. Ora potrei…

In piedi, le spalle alla finestra, volse lo sguardo alla foto sul comò. Gli sposi dentro la cornice sorridevano all’ombra di un ulivo. Rocco stava invecchiando, pensò. Restava ben poco in lui del giovane uomo accanto alla sposa. La schiena gli si era ingobbita, la barba sempre incolta gli dava un’aria sciatta e gli occhi erano rimpiccioliti dal gonfiore di borse scure. Accarezzò la foto con un polpastrello, sentendosi in colpa per i progetti d’allegria che coltivava in fondo all’anima. Come avrebbe fatto senza di lei? Chi si sarebbe preso cura di lui?   E poi qualche volta era stato così buono, come quando le aveva regalato un nuovo frullatore.  Un giorno, ricordò con tenerezza, si era ritirato con dei cioccolatini avanzati dopo una piccola festa sul posto di lavoro. Se li era tolti dalle tasche della giacca e, sorridendo, li aveva lanciati sul tavolo come si gettano le briciole ai piccioni. E lei, proprio come una colomba, era planata lieta sui pezzetti di cacao un po’ molli, ma dolcissimi.

Il tempo passava in fretta, mentre continuava a starsene lì, imbambolata, con le banconote in mano. Oddio! Non era ancora andata a comprare il pane fresco per la cena. L’ultima volta che l’aveva dimenticato, Rocco aveva dato un pugno così forte sulla tavola che i bicchieri erano finiti in frantumi sul pavimento.

Si vestì in fretta e furia e mentre scendeva le scale a due a due, forse sono ancora in tempo per l’infornata delle tre, pensò. Quando nel negozio prese il portamonete, si rese conto di aver messo in borsa, sopra pensiero, la busta gialla.

Ferma sul marciapiede, sotto al semaforo, strinse il pezzo di pane ancora caldo, mentre aspettava il verde.

Un venticello leggero le poggiò mani delicate sulla schiena. “Cammina”, la invitò quell’aria frizzantina. Obbedienti i piedi si mossero e imbastirono, un passo dopo l’altro, un ricamo ininterrotto sul nastro grigio che portava alla stazione.

C’era confusione, nel grande atrio a semicerchio. Un tabellone luminoso indicava partenze e arrivi.

Il battito del cuore si fuse con un greve senso di colpa.

Se salgo su un treno è finita, si disse, mentre le mani compravano un biglietto.

I piedi si avviarono ai binari e le parve che il suono dei suoi tacchi rimbombasse nell’universo, scandendo “per sempre” ad ogni passo.

La voce metallica dell’altoparlante si mescolò al vocio di viaggiatori appena scesi da un regionale e quel frastuono, simile al boato minaccioso prima un terremoto, le diede i brividi.

Sulla pensilina, di nuovo sentì invisibili mani gentili spingerla, ma questa volta resistette. Cocciutamente inchiodata a una panchina di pietra, non si mosse.

Doveva assolutamente tornare a casa, ai suoi doveri.

Ultimo avviso. “Direttissimo per Lione in partenza al binario tre.”

Tic-tac, tic-tac” bisbigliò il tempo. “Tic-tac”. Tra un minuto o due le porte di quel Frecciarossa si sarebbero chiuse, dietro al sipario irreversibilmente calato sul sogno.

Niente dura in eterno. Le cose passano. Le cose cambiano. La fantasia muore.

E io? si chiese stringendo i denti, eppure continuando a sentirsi protetta dalle invisibili catene che mai le avevano negato l’illusorio abbraccio di riti noti, immutabili, senza svolte.   

Quando la locomotrice urlò, come in un ultimo disperato appello, “Evaaa”, le parve che una folata calda le entrasse dentro e soffiasse via le cento domande infestate dai tanti “e se…?” che la ossessionavano.

E man mano che quell’aria sterilizzava le stanze della coscienza, ampi spazi si andavano riempiendo di un sentimento forte e pervasivo: l’amore per la vita, la sua.

Finalmente Eva spezzò il ferro e si abbandonò al richiamo. “Prendi il largo, cantò la sirena, e afferra il timone della tua nave.”

 

Sul sedile accanto al finestrino, guardò la stazione scivolare lenta all’indietro. Poi, improvvisa, la velocità ingoiò palazzi, alberi, passaggi a livello.

Si abbandonò fiduciosa all’abbraccio del treno.

Il paesaggio divenne una scia di colori e il sole, già basso dietro l’orizzonte, continuò a spruzzare oro tra gli alti cirri, finché il giallo si inchinò all’ indaco e rapida la notte rese tutto etereo. Ogni sostanza si sciolse e il panorama sprofondò nella liquidità di un ampio mare scuro, graffiato, a tratti, da bagliori fulminei.

In alto, la luna galleggiava placida, in un cielo solenne, in un cielo immenso.

Con calma, spacchettò il pezzo di pane e cominciò a mangiarlo. Era ancora tiepido e profumato. Sapeva di infanzia.

Trasformarsi, correre, lasciarsi dietro le ingannevoli cattedrali della consuetudine.

Ora tutto sarebbe stato possibile.

 

Nei flash mob dei giorni a venire, le scarpette rosse di Eva non avrebbero versato lacrime secche, tra le tante paia vuote e fredde e immobili, nelle grandi piazze del mondo.

 

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