Elena Tabacchi: Disobbedire
La narrazione di Elena Tabacchi ci offre una prospettiva particolare di pensiero sull’idea di disobbedienza.
Riflettere sulla disobbedienza, considerarla come un mero atto di opposizione distintivo, contrapposto all’essere obbediente, “stigmatizza”, mette argini tra due scelte.
Elena ripercorre la propria vita, ripensa alle parole che spesso si è sentita ripetere, da parte di chi l’ama come da parte di chi l’ha incontrata da bambina “Sei una bambina obbediente”. Ma proprio quella frase, ripensata e meditata, la mette sulla strada della crescita e della maturazione personale, della conquista della consapevolezza dei propri ragionamenti e delle ricadute sulle scelte compiute.
Disobbedire. O disubbidire, mi dice il vocabolario che consulto per mettere meglio a fuoco il punto di partenza di quello che voglio dire. In prima battuta, non mi sono mai raccontata come una persona disobbediente né sono stata descritta, da chi mi ha cresciuta, come una bambina disobbediente e tanto meno sono stata una disobbediente quando studiavo a Padova negli anni Duemila, quando cioè in questa parola risuonava ancora una particolare connotazione politica. Quello della disobbedienza insomma mi è sempre apparso come un orizzonte se non estraneo, almeno lontano. Eppure ora, all’antevigilia dei miei quarant’anni, sento tale lontananza accorciarsi ed è forse tempo di raccontarmi, per la prima volta, con altre parole. Disobbedire. Proprio perché mi è stato detto «sei stata una bambina obbediente», ho sempre pensato di esserlo, anche da adulta; nella mia testa si è cristallizzata da qualche parte un’immagine molto rassicurante di me bambina obbediente, che di conseguenza portava al corollario che l’obbedienza fosse a tutti gli effetti una virtù; per molto tempo, questo ha sortito l’esito di rendermi mite, accomodante fino all’eccesso, sostanzialmente pavida, rinunciando spesso ad espormi, ma soprattutto cinica. Se ci si riflette il cinismo ha molto più a che fare con l’obbedienza, che con la trasgressione, di cui sembra invece nutrirsi; il cinico rinuncia ad agire nella società per cambiarla, ne rifiuta i valori, certo, e si nutre di un senso di ribellione, ma si tratta di una critica che resta in superficie e fine a se stessa. Oggi gli esperti sconsigliano di etichettare i bambini e le bambine, ripetendo frasi del genere «sei un monello» oppure «sei la solita pigrona», perché finiscono per plasmare la personalità stessa dei più piccoli involontariamente, i quali tendono ad aderire a quell’immagine riflessa. Penso che per me sia successo qualcosa del genere: «sei una bambina obbediente». Se oggi sappiamo che «l’obbedienza non è più una virtù», quella frase così familiare, che mi sono sentita ripetere tante volte, assume un altro sapore. Per arrivare a questa consapevolezza, ho dovuto percorrere molte strade, andare lontano, per poi tornare, diverse volte, ma – cosa più importante – mi sono dovuta imbattere in molte persone, a cui ho permesso di mostrarmi altri modi di stare al mondo, altre vie. Come le icone bizantine delle Vergini odigitrie, che indicano il cammino da percorrere, anche questa piccola folla di amiche e amici, amanti, maestri e maestre mi ha illuminato il cammino. A Lorenzo, con cui condivido la strada da oltre un decennio, in questo senso devo tantissimo.
Inizialmente, quando mi è stato chiesto di contribuire al blog di Marina, avevo pensato di scrivere qualcosa sui miei atti di disobbedienza più profondi e di cui adesso, se non posso sempre dire di andar fiera, almeno ho imparato a riderci su, come il fatto di essermi iscritta a Lettere, a caso e in preda al caos che ha segnato il raggiungimento della maggiore età (un attimo prima – prendendo a prestito le parole di Michele Mari – che l’ultima campanella/mi mandasse nel mondo); o non aver nemmeno tentato il test d’ingresso di medicina, fantasma che mi ha accompagnato per anni e necessità che tutti attendevano con ansia, essendo io la prima “studiata” della mia famiglia; oppure aver smesso dall’oggi al domani, in quello stesso frangente o poco prima, di suonare il pianoforte a cui avevo dedicato dieci anni di studio, in rotta con (le pressioni e le aspettative di) mio padre; di lì a poco avrei tagliato anche i rapporti con mia madre, per altre ragioni, per un lungo anno. La lista potrebbe continuare, ma non sarebbe molto interessante. Quello che resta di importante è la certezza di aver almeno scalfito, sicuramente in modo disordinato, a volte doloroso e spesso inconsapevole, quell’idea cristallina di bambina obbediente, che mi ero cucita addosso, e in ultima battuta di essermi liberata di quel cinismo, che mi aveva accompagnato per molto tempo. Decidere di essere quella bambina obbediente non credo significhi fare della disobbedienza un habitus, ma forse e più semplicemente non rinunciare a scegliere, ad esempio da che parte della Storia, individuale e collettiva, stare.