I racconti di Paola: “Casa, dolce casa”
Racconto di Paola Medici
Paola sa tessere storie che attraversano corpo e anima. Con abile destrezza la sua scrittura crea una trama mai sazia delle risposte con cui noi lettori siamo abituati a precedere il finale. Sa, Paola, lasciare col fiato sospeso fino alla fine, noi, spettatori illusi di essere giunti alla completa composizione di un mosaico.
La lettura del testo apparirà senz’altro coinvolgente per quanti sfoglieranno attraverso le parole ogni dettaglio della vicenda narrata.
Buona Lettura!
Il cancello elettrico si apre senza fretta come un abbraccio al contrario. Non appena lo spazio si fa sufficiente l’auto entra adagio e parcheggia pochi metri più avanti. La donna al volante raccoglie la borsa e le chiavi di casa, scende e si avvia alla porta d’ingresso del condominio. Vince contro il desiderio di prendere l’ascensore e sale le due rampe di scale che la separano dall’appartamento pestando pesante ogni gradino.
Apre la porta e accende la luce d’ingresso con movimenti automatici. Le scivola la borsa per terra e la lascia lì dove cade. Con la testa a penzoloni e gli occhi socchiusi appoggia la giacca su una sedia che sembra trovarsi lì per quel motivo. Inciampa tra un passo e l’altro sfilandosi le scarpe lungo il corridoio semibuio. Si toglie cardigan, maglietta e canottiera come fossero cuciti insieme e li abbandona sul pavimento in un mucchio indistinto. Apre la porta della stanza in equilibrio precario, coi pantaloni alle caviglie, mentre i piedi indispettiti provano a liberarsi nel contempo anche dei calzini. Nella penombra della camera si perdono slip e reggiseno e in tempo record s’infila sotto le coperte.
Col piumino sotto il mento e gli occhi chiusi tira un sospiro di sollievo, quasi come se fosse riuscita a scappare, a fuggire da qualcosa che la stava inseguendo. Piano piano il tepore del corpo scalda le lenzuola e il microclima che si crea diventa il posto più bello sulla terra. Si quietano i pensieri, si fa delicato il pulsare del cuore, il fiato flebile è impercettibile. Il buio filtra ogni rumore e cancella le forme, si dissolve sottovoce il mondo caotico e frenetico e il tempo rallenta. Sembra quasi la pace, sembra quasi un traguardo questa dimensione senza appigli scollegata dal resto, ma non è così. Non bastano infatti quattro mura a farti sentire arrivata, a dare conforto. La meta è ancora lontana e per questo, immobile sul letto, dopo un attimo di riflessione, ricomincia a spogliarsi.
Si apre con sollievo insperato la muta lisa della pelle: dal collo all’inguine l’involucro roseo e morto scopre il rosso vivo dei muscoli. Se la toglie con una smorfia d’insofferenza rivoltandola senza cura come una muta da sub. I muscoli esposti pulsano al ritmo del cuore, li guarda, la loro superficie è liscia e inquieta. Con meticolosa pazienza infila le dita tra le fessure morbide e cerca al tatto i tendini. Quando li trova, dalla clavicola, dal gomito, dal ginocchio, li prende e li sfila come lacci di scarpe. Afferra quindi i muscoli e ad uno ad uno li stacca: i bicipiti, i tricipiti, gli obliqui dell’anca, la scacchiera degli addominali e poi giù, fino all’adduttore, il vasto mediale e laterale e i quattro gemelli. Rimangono a terra intorno a lei come palloncini tristi al ricordo di una gioia consumata. Inarca quel che resta del corpo, estrae sofferente il cervelletto col suo lungo midollo spinale e lo scaraventa contro un angolo della stanza. Giace lì il cadavere di una medusa, i cui tentacoli ancora tremano attraversati dalle ultime scariche elettriche. Stomaco, fegato, cuore, polmoni, intestino, pancreas e reni, si libera di tutto il superfluo. Svita le clavicole dalle scapole, separa le vertebre, omero, ulna e radio, femore, tibia e perone da entrambi i lati e in un attimo la struttura portante collassa come un palazzo che implode. Respira. Lentamente il sangue inerme scivola dal letto, gocciola al suolo e l’opera si compie.
Massaggia soddisfatta i calli di una giornata spesa in un corpo opprimente, chiude gli occhi e respira un senso di liberazione che quasi la commuove. Svincolata dal corpo l’energia non è più costretta da biologia alcuna e si moltiplica allegra nello spazio vuoto. I pensieri si stiracchiano e prendono forma, riempiono la stanza che ha smesso di esistere ma che rimane là, come avamposto simbolico di un mondo che non è mai esistito. Finalmente estranea al suo corpo si eleva in una dimensione a cui nessuno crede, ma questo non è rilevante. Si espande, si contrae, si fa immensa e minuscola, ha l’aspetto di un impulso che muta ad ogni nota. Il mondo circostante non è più vittima del vizio malato che hanno i cinque sensi di tradurlo in qualcosa di prevedibile e misurabile. Ora il tangibile diviene astratto e gli oggetti si trasformano nel riflesso della loro percezione. Crolla il complesso castello della logica e del pensiero deduttivo, le definizioni si rivelano fastidiose etichette da tagliare e i nomi, oh! i nomi sono solo contenitori vuoti. Si rompe senza scalpore il legame azione-reazione e ogni istinto, emozione o sentore cresce in armonia con se stesso, libero dalle aspettative mediocri di una civiltà corrotta. La volontà si arrende alle lusinghe dell’intuizione, il dolore e il piacere si abbracciano senza vergogna, la vittoria s’inchina a migliaia di sconfitte, gli obiettivi omaggiano i primi sofferti passi. Tutto è inizio e già fine, tutto è in programma e già compiuto: il passato e il futuro si mescolano in un romantico valzer sugli accordi di un presente che suona solo per loro. Fluiscono come fiumi in piena idee ebbre di entusiasmo in terre inesplorate dove i semi dell’espressione indipendente si nutrono dei resti di un’ordinarietà banale e ammuffita. In questo luogo che non è da nessuna parte, in questo tempo che è sempre stato e mai sarà, qua esplode la vita, in una manifestazione sconosciuta e accattivante, seducente e inarrestabile. Qua trova spazio, trova linfa, qua distrugge e crea se stessa.
Una luce illumina la stanza, un suono ritmico, insistente e nauseante irrompe nel silenzio e chiama ostinato. S’incrina l’atmosfera, stride una corda, la mente è richiamata all’ordine da un luogo ormai poco familiare. Ma lei non può e non vuole. Non si trova più in quel corpo dismesso disteso e nascosto che la vincola alle leggi della quotidianità. E’ lontana, è troppo distante per tornare dove qualcuno si aspetta di trovarla.
Allungo una mano e spengo il telefono.
Vogliate scusarmi, oggi no. https://paolamediciart.com/