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When they see us: una storia di razzismo e di ingiustizia sociale

di Federica Sanguigni

Nell’immaginario collettivo, l’America è simbolo di democrazia, di libertà e di sogni realizzati. Ma nella terra promessa a stelle e strisce accade, di frequente, uno stravolgimento di questi valori, a danno esclusivo delle persone più deboli e meno tutelate.

Il 19 aprile 1989 accadde un fatto di cronaca che sconvolse la collettività americana per la brutalità con la quale si svolsero gli accadimenti.

Una donna, mentre praticava jogging in Central Park, a New York, fu aggredita e stuprata e lasciata quasi morente in una pozza di sangue. Restò in coma per diversi giorni, riportando gravi lesioni fisiche e la completa perdita della memoria su quello che accadde quella drammatica notte. Dell’orrendo episodio di violenza furono accusati cinque ragazzini di colore, quattro afroamericani e un ispanico. La polizia aveva fretta di trovare un colpevole da assicurare alla giustizia e, nonostante l’assenza totale di prove, i ragazzi, minorenni e senza l’assistenza dei genitori né di un avvocato, furono sottoposti a un estenuante e lunghissimo interrogatorio che li portò, stremati e confusi, a dichiarare il falso dietro promesse di libertà, e ad accusarsi reciprocamente dello stupro. Furono condannati alla prigione, dai cinque ai quindici anni circa, scontando l’ingiusta pena tra maltrattamenti di ogni tipo.

Il gravissimo fatto di cronaca viene riportato alla luce in questi giorni attraverso una miniserie televisiva realizzata da Ava DuVernay e prodotta da Netflix con il titolo “When they see us”. Scena dopo scena, dialogo dopo dialogo, si rimane attoniti e pieni di una rabbia mista a tristezza e sgomento. L’ingiustizia a cui sono sottoposti i ragazzi, poco più che bambini, è palese. E la risposta a tutto questo è solo ed esclusivamente una: razzismo.

I ragazzi arrestati, e le loro famiglie, sanno sin da subito che non c’è via di scampo. Negare la responsabilità dell’accaduto, come fanno ovviamente all’inizio, non li salverà. Essi sono stati presi in un gruppo di adolescenti che si trovava sfortunatamente nel parco quella sera, con l’intento preciso di portare dei colpevoli sul banco degli imputati. Assenza di prove, registrazioni di confessioni chiaramente indotte, inattendibilità delle dichiarazioni. Nulla servirà a dimostrare la loro innocenza. L’America ha bisogno di un colpevole, di un mostro da sbattere in prima pagina, di una persona possibilmente di colore nero da accusare. Gli investigatori ne hanno cinque. Bingo!

Nonostante le proteste dei genitori, l’impegno degli avvocati e la forte pressione delle comunità a sostegno dei ragazzi innocenti, la popolazione è ben lieta di vedere assicurati alla giustizia quegli esseri malvagi, in modo da continuare a mettere la testa sotto la sabbia e a far dormire alla propria coscienza sonni sereni. I giornali, inutile a dirlo, attingono a piene mani da questa vicenda. Lo stesso Mr. Trump acquista pagine del New York Times per dire la sua, auspicando la pena di morte e compiacendosi del proprio odio verso i ragazzi.

Una storia tragica e assurda quella dei Central Park Five, come furono ribattezzati. Una storia che lascia senza fiato, con un groppo in gola che fa fatica a sciogliersi. Guardare i visi degli attori che hanno interpretato magistralmente la vicenda, porta, inevitabilmente, a immedesimarsi nell’angosciante realtà di cui furono protagonisti, loro malgrado, i veri ragazzi. La loro vita fatta di scuola, di sogni, di primi amori, di piccole passioni, si schianta come un’auto lanciata all’impazzata contro un muro. E l’agghiacciante rumore che fanno, mentre vanno a pezzi, lacera l’animo, facendoci sentire impotenti e responsabili.

Il pregiudizio è uno dei mali peggiori della nostra società. Inutile nascondersi dietro un dito. Il pregiudizio c’è e fa tantissime vittime, ogni giorno. Le continua a fare anche dopo, quando tutto dovrebbe essere finito e, invece, comincia un nuovo dramma. Una volta scontata la pena, infatti, i ragazzi non avranno vita facile e troveranno non poche difficoltà nella ricerca della reintegrazione in società. Il marchio di stupratore è un tatuaggio difficile da cancellare, il dubbio rimane nelle menti anche più sensibili e si arranca nella fatica quotidiana di trovare un posto. Il proprio rispettabile posto.

È una storia che fa male, questa. Una storia in cui l’ingiustizia la fa da padrona. Impossibile rimanere indifferenti davanti a tanto male, a tanto squallido egoismo, al dolore di madri e padri che vedono i loro figli irrimediabilmente segnati per sempre da una vicenda simile. E anche quando la verità verrà fuori, accompagnata da un risarcimento in dollari che non restituisce gli anni di tormento e di violenze subite, resta un senso di incredulità e di grande rabbia.

Ascoltare la voce degli uomini che quei ragazzi sono oggi, vedere la sofferenza ancora ben dipinta sui loro volti, provare solo a capire la milionesima parte di ciò che hanno vissuto, e che li tormenta ancora, è una lezione di vita da cui dovremmo imparare. Una volta per tutte.

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Cultura, arte e comunicazione di Roberta Recchia e Federica Sanguigni

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