di Federica Sanguigni
“Angela è una ragazza sola in una città di milioni di persone. È abituata a camminare a testa bassa, con il collo incassato nelle spalle, attenta a non inciampare negli sguardi sbagliati. Non ha paura per sé. Ma deve proteggersi per salvaguardare chi ama. Ogni tanto la sorprendi vicino una finestra a guardare fuori. Ma se le metti gli occhi negli occhi, ti accorgi che non è il panorama che sta osservando. Il suo sguardo va oltre i vetri. Oltre gli alberi e le case. Oltre le persone che attraversano la strada. Trapassa il cielo e i confini. Se la guardi attentamente puoi riconoscere, impresso sulle sue pupille, il viso piccolo e rotondo di un bambino. Se le sfiori il volto, avverti il calore di due manine paffute che da tempo, ormai, non la carezzano più. E sulle labbra fredde, solitari e smarriti, milioni di baci non dati.”
Un esercito silenzioso e senza armi, che lavora ininterrottamente per mettere via quanti più soldi possibili da mandare a casa, alle dipendenze di datori di lavoro, quasi sempre a nero, che sfruttano e approfittano. Cibo spesso insufficiente a sostenerle, pochi diritti e tanti, tanti doveri. Mestieri massacranti, soprattutto di assistenza ad anziani e di collaborazione domestica, tanto lavoro e poco riposo.
Sono le donne dell’est europeo. Ucraine, moldave, rumene. Lasciano il proprio paese d’origine, le famiglie, i figli, per andare a lavorare lontano e cercare un po’ di fortuna da destinare ai propri cari.
Come Angela. Arrivata in Italia con tanti sogni. Il primo, ricongiungersi presto con il suo cucciolo.
Sogni che difficilmente si realizzano. Anni di lavoro, di stanchezza fisica e mentale, di tristezza, di malessere, vissuti con il terrore di non rivedere più la propria famiglia e la terra d’origine. E quando questo accade, spesso si presenta un fenomeno molto particolare che è stato definito come la sindrome italiana.
Quando queste donne, dopo anni di lavoro estenuante, di solitudine e di stress, tornano alle proprie case, si ammalano, molto spesso, di una nuova forma di depressione, la sindrome italiana, appunto.
L’identità di queste donne subisce un attacco feroce e l’amore materno, per quei figli lasciati tanto tempo prima, tende ad affievolirsi, scatenando in esse un forte senso di colpa. La sofferenza patita, la stanchezza, l’ansia, gli attacchi di panico, la lontananza fanno sprofondare queste donne in un grave malessere arrivando a farle avere, non di rado, istinti suicidi.“Angela ricorda con angoscia il momento del distacco. Le loro lacrime disorientate e unite in un ruscello di dolore caduto a terra goccia a goccia con un tonfo assordante che le rimbomba ancora oggi nelle orecchie. Le sue piccole braccia tese a cercarla mentre lei si allontana senza voltarsi. Gli occhi annebbiati dal pianto più straziante della sua vita. Una promessa mormorata a fior di labbra. Un “tornerò da te” che ora le suona sordo come una bugia.”
I figli che restano a casa, con i papà, i nonni o affidati ai parenti, soffrono anch’essi, ovviamente. Gli “orfani bianchi” o “orfani sociali”, come vengono denominati, non riescono a superare il dolore della separazione, crescono senza la figura materna, si ammalano di depressione e, spesso, smarriscono se stessi arrivando a scelte estreme come quella di togliersi la vita.
Due mondi divisi, nello spazio e nel tempo. Binari paralleli che, difficilmente, torneranno a incontrarsi. Da una parte le donne, le mamme costrette a cambiare vita per assicurare un futuro migliore ai propri cari. Dall’altra parte bambini e bambine, ragazzi e ragazze che, forse, di quel futuro migliore non avranno modo di godere. I pacchi spediti, i soldi, che pur aiutano a vivere in modo più dignitoso, non colmano l’enorme vuoto affettivo che si viene a creare.Un esercito di donne lavoratrici.
Un esercito di “orfani”.
Nel mezzo, diritti assenti, leggi inadeguate, mancanza di sostegno psicologico e materiale. Come sempre accade, a soffrire maggiormente delle ingiustizie e dei mali del mondo, sono le donne e i bambini.
“La maglietta profuma ancora del suo cucciolo ma forse è solo un’illusione. Dalla piccola fotografia sciupata dagli innumerevoli baci, il suo bambino la guarda con occhi inconsapevoli. Una grossa lacrima, muta e dignitosa, cade su quel visetto di bimbo lontano. […] Angela è una clandestina. Viene da lontano. Nel suo paese ha lasciato la parte migliore di sé. Nel nuovo, ha portato il suo dolore. Il suo bel viso invecchiato di secoli in pochi anni.
Angela si è portata dietro la speranza di un sogno che ha la faccia di un bambino dal quale ancora non si è sentita chiamare mamma.“
(I passi del testo in corsivo sono tratti dal racconto “Angela” di Federica Sanguigni, contenuto nell’antologia “I racconti di Cultora” – Le fotografie sono opera dell’artista Marinella Pompeo).
Cultura, arte e comunicazione di Roberta Recchia e Federica Sanguigni
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