Born To Be Online

Venerdì-Le ombre del viaggio: Venezia

Venerdì con i nostri viaggiatori

La città come luogo di ricordo, intersezione di pensiero e relazione, prospettiva di crescita individuale e collettiva

Oggi Campo Santi Apostoli di Bruno Trevellin

Legge Biancamaria Faggian

 

ESALTA LA LETTURA, ASCOLTANDO, MENTRE LEGGI IL TESTO, LA VOCE DI BIANCAMARIA FAGGIAN,

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In giro per la misteriosa Venezia

L’albergo l’avevano prenotato online. Le camere, il salotto e la reception si presentavano molto bene nel sito e il prezzo, decisamente buono, era un invito a non rinunciare. Del resto, si era sì negli ultimi giorni di carnevale, ma anche in periodo di covid e così il costo dei pernottamenti era sceso a meno della metà. Lei ci pensava da tempo a un soggiorno a Venezia, da soli, senza figli, senza la compagnia di amici.

Il viaggio in treno si rivelò tranquillo. Da Padova alla stazione di Mestre lui aveva pure chiuso occhio. Faceva sempre così, quando viaggiava in treno o in corriera. Gli bastava poco per rilassarsi e prendere sonno, anche se non del tutto. Era infatti un sonno strano il suo, diverso dal normale, un sonno che manteneva l’orecchio vigile alla voce del bigliettaio o alle chiacchiere dei vicini. La moglie sapeva che in quei minuti era meglio non disturbarlo e, come d’accordo, gli dava un richiamo solo se il sonno iniziava a farsi rumoroso. Aveva quel difetto e se ne preoccupava, ma quel lasciarsi andare, quel posare lieve le mani sui braccioli gli dava quiete e serenità. In quei momenti gli passavano per la mente pensieri vaghi, ricordi lontani, volti noti e dimenticati, dialoghi: rivedeva suo padre seduto a fumare, sua madre che stendeva la biancheria, le nipoti che giocavano in giardino, soprattutto i due figli, adulti da un bel po’ anche loro, alle prese con la vita di tutti i giorni, e pensava anche a quell’altro che non era riuscito a venire al mondo e che sarebbe stato il loro terzo.  In quello stato neanche il colpo d’aria causato da un treno che correva nella direzione opposta sarebbe riuscito a distrarlo; lo sentiva, ma lo lasciava andare indifferente senza neanche aprire un occhio, occhio che schiudeva solo una volta arrivati in laguna, quasi percependone la vicinanza, quasi sentendone l’odore. I primi isolotti, le briccole, qualche imbarcazione, i gabbiani erano la prima veduta sulla città.

Alla stazione di Santa Lucia il treno arrivò cigolando, ma sarebbe stato quello l’ultimo rumore di terraferma.

L’albergo a Campo Santi Apostoli era lontano solo una quindicina di minuti a piedi.

– Ci fermiamo qui a fare colazione? –  chiese lei, proponendogli di sedersi a un tavolino della stazione. Lui le rispose che forse non era il caso di fermarsi proprio lì, in mezzo a tutto quel via vai di gente e che semmai era preferibile un bar su una calle subito dopo il Ponte degli Scalzi.

Erano gli ultimi giorni di carnevale, ma non c’era voglia di festa né di maschere e anzi la città sembrava quasi deserta. Il covid l’aveva come riportata al tempo della peste. Si fermarono dunque a uno dei primi bar che trovarono aperti. Il servizio era all’esterno e dentro si entrava solo per ordinare e per pagare, tenendo naso e bocca ben sotto la mascherina chirurgica. Lei ordinò una brioche vuota e un cappuccino, lui un krapfen alla crema e un macchiato, la loro solita ordinazione quando facevano colazione fuori. Dopo venti minuti ripresero verso Rialto. Le botteghe erano quasi tutte chiuse e mostravano la mercanzia senza luci alle vetrine. Tante, anche troppe maschere in esposizione e poi vetri, tutti ovviamente di Murano, a leggere le scritte, anche quelli prodotti ben altrove. Un negozio teneva esposto all’esterno proprio il costume del medico della peste. Nero il mantello, bianco e lungo il becco. In un altro periodo avrebbe fatto sorridere, ma ora se ne stava a richiamare tutta la gravità di una situazione in cui uno poteva diventare l’untore dell’altro.

Lui chiese conferma a un gondoliere sulla direzione da prendere perché sapeva che, se non sei veneziano di Venezia, si rischia sempre di perdersi come dentro un labirinto.

– Per Campo Santi Apostoli la strada più breve era quella dall’altra parte, per Cannaregio. Per di qua dovete prima arrivare al Ponte di Rialto e poi girare verso sinistra. Non manca molto. Saranno altri dieci minuti – rispose pronto il gondoliere che  approfittò per informarli che se volevano fare un giro in gondola quel giorno avrebbe fatto un buon prezzo.

La tariffa indicata sul cartello diceva ottanta euro, ma si impegnava a scendere fino alla metà. Lo salutarono con la promessa che sarebbero senz’altro tornati per il giro.

 

Arrivarono in anticipo all’hotel, nascosto in una calle stretta a Campo Santi Apostoli. La ragazza alla reception li fece accomodare lo stesso, perché la camera era già stata liberata e sistemata. Aveva unghie lunghissime, di colore blu mare, un piercing alla narice sinistra e una rosa tatuata sul polso destro. Chiese i documenti. Si sedettero sul divanetto addossato alla parete e, nell’attesa, guardavano i libri esposti in una vetrinetta che stava di fronte. Libri su Venezia, ma anche opere di narrativa, e in vendita ovviamente, così accanto a Le pietre di Venezia di Ruskin erano finiti pure un Harry Potter e un Signore degli anelli. Finita la registrazione, la ragazza li accompagnò alla stanza al piano superiore. Le scale in marmo bianco conducevano a un ampio e lungo salotto con pavimento in terrazzo e soffitto a travature da cui pendevano due lampadari a gocce di vetro. Un tavolo rettangolare sistemato al centro e uno rotondo sotto la finestra avevano nel mezzo un centrino in merletto, quello rotondo anche un vaso Veronese di Venini.

– Signori, la colazione ve la possiamo servire qui in salotto oppure in camera. Come preferite! – fece la ragazza.

– Va bene in camera – disse lei che per  evitare di trovarsi assieme ad altri ospiti dell’hotel.

Sulla porta della camera una targhetta in ottone con la scritta ‘Casanova’ sembrava più che un invito.

– Ecco, questa è la vostra camera! Qui avete il bagno e da qui potete uscire sul terrazzino.

La camera era proprio come nelle foto in internet: le pareti tappezzate di broccato floreale rosso, il drappo sopra la testiera giallo come la lunga tenda alla finestra, le due sedie laccate finto Settecento, di fronte al letto un grande specchio molato, di quelli con cornice color oro e avorio.

Un tempo si sarebbero buttati subito su quel letto, oscurando la stanza, ma facendo in modo che vi entrasse solo un filo di luce, quel tanto che bastasse a disegnare nella penombra i loro corpi.

Mentre lui stava fuori sul terrazzino a guardare i tetti e le altane, lei svuotò il trolley, appese i vestiti nell’armadio, mise in carica il cellulare. La calle di sotto era deserta, le case di fronte con gli scuri abbassati e niente dava a intendere che fossero anche abitate.

– Dai, facciamo due passi, così vediamo se troviamo anche una trattoria per il pranzo –propose lui, rientrando dal terrazzino.

Uscirono infatti e presero verso Fondamenta Nuove, senza una meta precisa. Girando per le calli scoprirono angoli sempre diversi: un pozzo in marmo rosa chiuso da chissà quanto, un capitello votivo all’angolo di una casa con fiori di plastica dai colori sbiaditi e pieni di polvere, una chiesa con il portone serrato e dove forse neanche si officiava più, un’iscrizione marmorea a indicare che lì soggiornò o nacque qualcuno di più o meno importante.

Le botteghe su Fondamenta Nove erano in gran parte di pompe funebri. Del resto l’isola di San Michele, quella del cimitero, stava proprio lì di fronte. La mattina, scendendo l’ultimo ponte che portava in Campo Santi Apostoli, avevano perfino assistito a un corteo funebre. La bara, tirata fuori dalla barca, veniva trasportata su un carrello pieghevole in chiesa e il defunto attraversava così per l’ultima volta tutto il suo Campo, con al seguito pochissime persone, per lo più vecchi.

Camminavano dunque lungo le Fondamenta Nuove, a volte tenendosi per mano, a volte lei prendendogli il braccio, sfiorando gruppi di ragazzi con mascherine anti-covid, svogliati. Erano in vacanza per il ponte di carnevale, ma per terra non si notavano coriandoli o stelle filanti.

– Gondola, signori? – si propose un gondoliere, riconoscendoli subito come turisti.

– Ci fai come il tuo collega a Rialto? – chiese lui, facendogli capire che sì, erano interessati, ma che dipendeva dal prezzo.

– Quanto vi ha chiesto? – volle accertarsi quello.

– Quaranta – mentì.

– Dai, va bene.

A Venezia anche i gondolieri sono mercanti, sanno che al primo approccio bisogna convincere il turista a spendere per la gondola anziché per un vetro o per una maschera. E poi è tutto guadagnato, non rilasciano scontrino.

– Sì, però non è che ci porti a fare un giretto di dieci minuti?

Gli dava del tu, come se lo conoscesse da tempo o come si fa con un sottoposto. Ci pensò dopo che non era stato proprio educato parlargli in quel modo, anche perché non dava mai del tu a un tassista o a un bigliettaio.

– No, no! Giro completo. Andiamo fino al Canal Grande e poi torniamo facendo il canale di là sulla sinistra.

Salirono dunque e il gondoliere si mise subito a discorrere, indicando di qua e di là e tentando di spiegare qualcosa dei palazzi e dei ponti.

– Oh, zio! – fece, incrociando un’altra gondola. Spiegò che si chiamavano così, dandosi l’un l’altro un soprannome pescato nella cerchia famigliare pur non avendo tra loro nessuna parentela.

Non gli sembrò difficile quella voga né faticosa. La gondola scivolava lenta lungo i canali, il remo era solo posato sulla forcola, il suo movimento lieve, ma bastava solo un tuffo della pala per avanzare.

Col gondoliere parlarono in dialetto, facendogli capire che erano entrambi insegnanti, lui dicendogli subito che di Venezia sapeva abbastanza, comunque quel tanto che bastava per non farsi ingannare. Il gondoliere si mise sul prudente, ma qualche bugia se la lasciò scappare lo stesso, come quella dei trenta mila pali sui quali doveva poggiare il Ponte di Rialto o quella sul numero dei residenti che vivevano ancora in città. Diceva di essere del Lido e di tenere solo in subappalto la gondola, spiegando che per acquistare una licenza si andava sui quattrocento mila euro.

– Ecco, quello che vedete alla vostra sinistra è l’hotel in cui alloggiò Angelina Jolie durante le riprese del film The Turist, quello con Johnny Depp. Quello lì davanti è invece il Mercato del Pesce.

Trovarono simpatico quel gondoliere, che si lasciava fotografare e che li fotografò proprio sul Canal Grande. Ritornò passando per la chiesa di Santa Maria dei Miracoli, dicendo che tanti, anche da fuori Venezia, andavano a sposarsi proprio là.

– Costruita con i marmi avanzati della basilica di San Marco – precisò.

Non era vero, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di contraddirlo. Li fece passare sotto la casa di Marco Polo, ma indicava loro anche l’umidità e il salso che scrostava di continuo gli intonaci e che si mangiava le fondamenta. Da dentro i canali, con la gondola che andava lenta, vedevano ovunque la fragilità della città, il suo abbandono e la sua agonia. Le calli piene di negozi, di bar, di alberghi nascondevano ancora bene la sua decadenza, ma erano solo il suo ultimo mascheramento, che poco si sposava con i mascheroni bianchi di vegliardi posti sugli archi degli ingressi a segnare residenze e famiglie che non esistevano più. Fece loro notare le pietre scrostate, corrose, di un rosso sempre bagnato e sporco, con muschi e alghe verdi e le cozze nere attaccate alla base in acqua, fitte. Da quei canali le case mostravano la loro parte nascosta, quella da non far vedere, trascurata, quella con porte e balconi spesso fatiscenti, con inferriate arrugginite da secoli.

Il giro finì, pagarono i quaranta euro pattuiti, salutarono il gondoliere, che comunque aveva già altri turisti che lo stavano aspettando al pontile.

 

Fecero due passi prima di rientrare in hotel, girando per le stesse calli e fermandosi a un tavolino all’esterno di un bar.  Ordinarono un caffè e parlarono dei figli, di come risistemare la casa, delle vacanze estive. Il conto di sette euro per due caffè sembrò a entrambi un’esagerazione. Il gestore del bar era un cinese, il cameriere un ragazzo del posto e il locale proprio vicino alla casa di Marco Polo.

 

Per il pranzo si fermarono in una trattoria vicino alla basilica dei Santi Giovanni e Paolo. Entrarono che era quasi l’una. Un’unica sala, piccola e stretta, lori i primi clienti. Chiesero al cameriere, cinese come il cuoco, se potevano sedersi al tavolino nell’angolo. Era anche quello un modo per stare isolati, per essere intimi, per non mostrare a nessuno i propri sguardi.  Ordinarono un mezzo litro di acqua frizzante, un mezzo di prosecco, spaghetti allo scoglio e frittura mista con una verdura fresca di contorno. Nell’attesa mangiarono i grissini salati e un paio di bossolà, i pani secchi ad anelli dei pescatori chioggiotti che non mancano mai in nessuna delle trattorie della laguna.

– Adesso che vado in pensione ci torneremo più spesso a Venezia – prese a dire lui, guardando le stampe del Canaletto appese alla parete che gli stava di fronte.

– Siamo venuti la prima volta che eravamo appena ragazzi, nel giugno dell’’84 – gli ricordò lei che per le date e per i viaggi della loro vita aveva una memoria ferrea.

– Sì, ma allora non abbiamo pranzato in trattoria. Ci siamo portati il pranzo a sacco e neanche ci interessavano più di tanto i monumenti, allora.

Lui le ricordò che erano infatti andati fino a Torcello solo per stendersi sul prato dietro la basilica e lì baciarsi a sazietà.

Il cameriere portò finalmente gli spaghetti. Il sapore era buono, invitante, pomodorini con vongole, cozze, gamberetti e tranci di seppioline e calamari coloravano il piatto che si faceva mangiare già con gli occhi.

– Buono appetito, signoli –fece il cinesino, posando i due piatti sul tavolo. La tovaglia e i tovaglioli erano di cotone bianco, non di carta come in una semplice tavola calda, i bicchieri due calici, uno per l’acqua e uno per il vino, la posateria argentata.

– E’ bello mangiare così, stando sempre seduti e serviti, senza dover prima preparare e poi anche spreparare – gli fece notare lei, e non per la prima volta.

– Ed è sempre meglio della solita pizza, che tanto qui a Venezia – osservò lui – va a finire che la paghi come un pranzo così.

Il cuoco nel frattempo aveva immerso nell’olio bollente le porzioni di frittura. Sentirono entrambi il colpo secco e friggente dell’inizio, quando l’olio comincia veloce e spietato a incrostare la pietanza. Il cameriere tornò a ritirare i piatti vuoti del primo, portò l’insalata e dopo qualche minuto si presentò con le due fritture belle dorate. A lei sono sempre piaciuti i calamari fritti, specie se abbondanti. Sosteneva che se erano preparati bene, dovevano essere croccanti all’esterno e teneri dentro.

– Ti ricordi quella volta che abbiamo preso la frittura servita nel cartoccio a cono? – gli chiese.

– Ah, sì, da Frittolin, vicino al Ponte di Rialto – ricordò lui.

Chiusero il pranzo ordinando un caffè e un Montenegro, ma non se ne andarono subito, non avevano fretta, come deve essere se ti fermi a mangiare in trattoria. Ripresero infatti a parlare dei figli, della casa, della macchina da cambiare, dei parenti e dei colleghi. Chiesero quindi il conto, pagarono con carta di credito, uscirono per rientrare in hotel a sdraiarsi un poco. Lui finiva spesso per precederla di qualche passo e così si vedeva costretto a rallentare o a fermarsi per aspettarla. Gli sembrava che lei avesse sempre altro cui pensare e che in quei pensieri lui ci fosse solo un poco.

Buttato sul letto, si ricordò che solo vent’anni prima, in una fuga pomeridiana, si erano baciati ancora avidamente all’ombra di una calle dalle parti di San Vidal. Si ricordò anche della foto di suo padre e di sua madre in bianco e nero sul comò, scattata in Piazza San Marco, circondati da colombi, più di trent’anni addietro. Pensò che doveva ancora portarla dove non erano mai stati, alla mostra del cinema al Lido o a uno spettacolo alla Fenice.

 

Il pomeriggio entrarono in un bar su Campo Santi Apostoli, sedendosi per un aperitivo. Ordinarono un prosecco e un piattino di sarde in saor, chiacchierando del tempo, di dove potevano ancora andare. Entrò anche un’altra coppia, che si sedette proprio di fronte a loro. Avevano più o meno la loro età. Lei era francese, si sentiva chiaramente, anche se parlava molto bene in italiano. Si misero a parlare amichevolmente col barista. Sembrava che si conoscessero da tempo. Il barista diceva di essere contento di quel suo lavoro, ma che per la figlia universitaria sperava in ben altro. Poi entrò un altro signore, uno sulla quarantina, che si sedette vicino a quella coppia. Si misero a parlare con la cameriera della vita a due. Lei  raccontava che si era lasciata dopo una decina d’anni di fidanzamento, ma stava bene così e diceva che non stava cercando nessuno. L’ultimo entrato si rivelò un  single, uno che non aveva mai avuto nessuna donna. La coppia ascoltava e dava ragione all’uno e all’altra. Loro però stavano insieme da tanto e sembravano felici.

 

Arrivarono in una piazza San Marco deserta come non mai, proprio come in un quadro di William Congdom. Era domenica e la messa in basilica era cantata. Entrarono con buon anticipo per trovare un posto a sedere tra le  prime file.

– Solo messa, holy mass – andava ripetendo un guardiano alla porta d’ingresso laterale. Si sedettero infatti in seconda fila e ascoltarono le prove dei canti che sarebbero stati eseguiti durante la liturgia. Il prete fece la sua omelia in italiano e anche in inglese, insistendo sul tema dell’amore di Cristo e spiegando che non si trattava di un sentimento, di un affetto come quello comune tra le persone, ma di un seguirne la parola. Era ben preparato il prete, si sentiva. Tutti ascoltavano attenti, in silenzio, senza neanche lasciarsi distrarre dai mosaici. Per qualche secondo ebbe anche lui la sua tentazione di santità, ma si rese subito conto che ci sarebbe voluta anche tutta una vita per arrivare ad assomigliare a quel prete e a lui il tempo mancava ormai sempre di più.

 

 

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