Diritti e società
Diario di una giornata in una classe di italiano L2, livello PreA1
di Daniela Lucchesi
“Apprendere una lingua significa anche apprendere un nuovo modo di vedere e di stare nel mondo” ci dice Daniela Lucchesi, insegnante di Italiano di una scuola del CPIA di Padova.
In questa storia di vita, entriamo in un universo di cui sappiamo solo spesso dell’altro attraverso luoghi comuni.Fare la scelta di un insegnamento rivolto a ragazzi, uomini e donne adulti, specie di cultura non autoctona, richiede passione, tenacia, affidamento reciproco, un atteggiamento che ha come substrato una “psicologia della volontà”, avendo fiducia nelle proprie decisioni e nelle nostre strategie didattiche.
Ed ecco la narrazione di Daniela
Ore 9,00. Il gesso stride mentre scrivo sulla lavagna lucida: “Oggi è un bella giornata!”
E non importa se piove e fa pure freddo, mi piace iniziare la lezione con questa frase, una specie di mantra iniziatico, una formula di buon auspicio che mi pare predisponga la classe ad una lezione avvincente e serena.
Le donne arabe ricopiano diligentemente la frase nei loro quaderni ordinati, infagottate nei giacconi un po’ informi dai colori sobri, mentre foulard dai colori vivaci coprono i loro capelli.
Ore 9,15. La porta si apre rumorosamente, ed entrano Lynn e Mary, con passo strascicato, l’espressione dei volti orgogliosa e un po’ contrariata. Borbottano pigramente: “Buongiorno”, “Buongiorno! Oggi non ci sono Lilian e Dorothy?” domando loro, “No, today doctor visit for Lilian’s baby e Dorothy comes later” e con un’andatura stanca si dirigono verso il loro tavolo. Le arabe le seguono con occhi curiosi e vivaci, bisbigliano qualche commento mentre le altre si siedono ed estraggono dalla borsa le fotocopie in ordine sparso, la penna, la matita e la gomma. Lentamente cominciano a scrivere le parole alla lavagna, gli occhi gonfi per la mancanza di sonno, perché entrambe hanno bambini neonati che non dormono la notte.
“Oggi lavoriamo sulla descrizione fisica, com’è una persona? Quanto è alta? Di che colore ha i capelli, gli occhi, la pelle? E’ magra o robusta?” Mi sforzo di articolare bene e piano le parole, gesticolo molto, ma mi accorgo dalle loro espressioni confuse ed affrante che non hanno capito granché.
Trascrivo le parole nel pc e in un istante una voce anonima pronuncia le frasi in arabo e in inglese e già vedo gli sguardi rasserenati e distesi. Benedetto google translator che mi consente di padroneggiare due lingue senza sforzo!
Distribuisco le fotocopie con il lessico sulla descrizione e faccio vedere un breve video.
Ore 9,40. La porta si spalanca ed entra Dorothy, le gambe fasciate da calze colorate, stivali con i tacchi alti, capelli blu elettrico, mi guarda e biascica un Good morning mentre mastica un chewing gum. Anche stamattina ce l’ha fatta ad arrivare, sebbene con 40 minuti di ritardo!
Khadija mormora qualcosa alla sua compagna e si volta ad osservare Dorothy con uno sguardo eloquente nei confronti della minigonna, del gloss e dei lunghi capelli turchini sciolti.
Dorothy è giovanissima, ha appena 20 anni e ha conservato la sua aria ribelle adolescenziale, che lei rivendica fiera, nonostante la vita l’abbia fatta crescere in fretta.
Ogni tanto, durante la lezione, mi tocca rimproverarla perché ascolta la musica dal cellulare con le cuffie.
Sono tutte giovanissime le ragazze nigeriane del corso di alfabetizzazione PreA1 del Cpia di Abano e sono tutte madri. Molte di loro hanno storie più o meno pesanti alle spalle e fuggono da un paese che non può offrire loro granché, ma a volte temo che neppure l’Italia possa offrire molto a delle giovani donne, con dei bambini piccoli da crescere, con poche risorse economiche e culturali, ma spero di sbagliarmi.
Anche le altre studentesse del corso sono giovani. L’età media si aggira sui 27 anni.
Le allieve arabe, di origine marocchina, e quelle nigeriane sono coetanee, ma appartengono a due mondi totalmente differenti. Le donne marocchine sono tutte rigorosamente sposate con due o tre figli e mi domando a che età si siano sposate perché qualcuna ha il primogenito della stessa età della mia che ha 10 anni, che invece di anni ne ho 50. Hanno lo sguardo serio e posato di donne senza grilli per la testa che mandano avanti la famiglia e la casa, senza mai mettere in questione la serietà dei loro compiti e del loro ruolo sociale femminile.
Ore 10,00. Nonostante le difficoltà linguistiche provo a fare qualche discorso più complesso con l’aiuto di google. Confronto i costumi italiani con quelli dei paesi degli allievi, invito la classe ad esprimere opinioni, ma le donne arabe rimangono silenziose. Sicuramente questa ritrosia è dovuta in parte alle lacune linguistiche, in parte a qualcos’altro.
A volte mi pare di toccare un’invisibile linea di confine che delimita i nostri universi culturali e mi pare che i nostri due mondi di appartenenza, pur con dei punti di contatto, siano impermeabili.
Probabilmente loro rimarranno fedeli a quell’immaginaria linea di frontiera, non infrangeranno quel limite che le separa da un’altra cultura; quel compito toccherà ai loro figli e figlie che forse apriranno delle crepe in quel confine.
Ore 10,30. Esercizi orali sulla descrizione. Karima chiede a Zahira: “Che colore i capelli?”
Zahira scosta timidamente il foulard dal capo, poi si volta verso gli uomini presenti con un leggero imbarazzo e comprendo che la presenza maschile costituisce un problema. Lei e Hassan, l’unico studente maschio, si scambiano un breve discorso in arabo al termine del quale Hassan si alza dal suo tavolo e si appresta ad uscire, rispettoso. Anche Vincenzo, il collaboratore, ha compreso la situazione e dice: “Ok vado a fumare una sigaretta fuori.” Appena gli uomini escono le donne marocchine si tolgono i foulard e una chioma di capelli scuri, inaspettatamente lunghi e fluenti, si sciolgono sulle loro spalle in piccole onde. Sono stupita dalla bellezza delle loro chiome ben curate e solitamente nascoste che ora incorniciano quei volti giovani, dai profondi occhi scuri. Improvvisamente sono più belle, da studentesse assennate e seriose si sono trasformate in donne consapevoli del loro fascino e appaiono più sciolte anche negli atteggiamenti, si scambiano sguardi complici, parlano concitate tra loro e ridono. Completiamo l’esercizio in un’atmosfera d’ilarità generale. Dopo richiamiamo gli uomini in classe.
Ore 11,00. E’ giunta l’ora della pausa. Ci rilassiamo fuori anche se troppi stranieri sotto le finestre del palazzo in cui siamo ospiti, troppi fazzoletti colorati, troppe donne silenziose ed educate ma inconfutabilmente straniere a volte infastidiscono i condomini quando si aggirano negli spazi “comuni”, ma da quando un aggettivo ha connotazioni etniche?
Ore 11,15. Ci dedichiamo all’ortografia con un dettato di parole con i digrammi gn/ gl; ritagliamo le sillabe delle parole per poi ricomporle. Devo ammettere che le studentesse marocchine sono svelte ad imparare parole nuove, molto più di me che ogni anno provo a memorizzare qualche parola araba con scarsissimi risultati, mentre invece ho imparato da loro a fare il cous cous e il pane arabo!
Quando si tratta di passare dalla composizione di parole a quella di semplici frasi si smarriscono completamente. Evidentemente la sintassi della lingua italiana è complessa e differente da quella araba, in cui il verbo è spesso omesso e i costituenti principali della frase sono disposti in un altro ordine.
Le allieve marocchine sono arrivate in Italia da poco, è solo il secondo anno che frequentano la scuola, l’anno scorso hanno imparato l’alfabeto italiano, le sillabe e un po’ di lessico; ora hanno assimilato qualche verbo e qualche semplice frase di uso quotidiano.
Apprendere una lingua significa anche apprendere un nuovo modo di vedere e di stare nel mondo, infatti lo studio di una nuova lingua crea nuove connessioni neuronali.
Non posso pretendere troppo dalle mie studentesse, l’apprendimento linguistico richiede processi digestivi e metabolici faticosi in cui permettiamo ad un altro mondo di entrare nel nostro. Bisogna avere pazienza e fare un passo alla volta!
Ore 12,00. Anche questa mattina è finita, siamo stanche ma soddisfatte, un altro passo l’abbiamo compiuto, domani ne faremo un altro.