Leggendo l’articolo di Paolo Farina, ho riannodato i fili della memoria. Il pensiero è corso ad anni fa quando mio figlio Daniele, il secondogenito, aveva da bambino la vocazione
” labirintica” allo smarrimento fisico e immaginifico.
Così, non una volta, è successo, in vacanza, che si allontanasse momentaneamente da noi genitori, per esplorare spazi nuovi. In quei frangenti, a chi gli chiedeva:”Chi sei? e “Di chi sei?” Rispondeva : ” Daniele. Sono di mamma e papà”.
Leggiamo insieme questo articolo di largo respiro; esso lambisce profondità di riflessione sul concetto di appartenenza identitaria e sociale.
A chi appartieni?
Di Paolo Farina
«Non accetto più niente, nella mia vita, che non abbia radici»
(Ada Luz Márquez)
Sant’Andrea di Conza è uno di quei borghi da sogno di cui è ricco il nostro Appenino.
Si trova in Irpinia, conta mille e trecento abitanti e riesce nel miracolo di portare avanti da ben undici anni una “Festa del libro” che attira decine di scrittori e migliaia di visitatori: un vero miracolo, se ci si pensa bene, ed una prova che non solo con “la cultura si può mangiare”, ma anche di come lo si possa fare in maniera intelligente e lungimirante. Persino visionaria. Peraltro, avendo avuto la fortuna di esserci invitato, ho potuto apprezzare la presenza di giovani che hanno studiato fuori e poi sono tornati nel luogo delle loro radici per investire le proprie lauree e i propri master nell’agricoltura sostenibile, nell’enogastronomia, nel settore turistico…
Caro lettore, adorata lettrice,
tutto ciò premesso, è proprio sul concetto di radici che vorrei si appuntasse la nostra riflessione.
Quando, in Largo Abruzzese, nel cuore del borgo di Sant’Andrea, ospite di un salotto letterario, ho letto la targa che puoi ammirare in foto, ho vissuto un vero deja-vu.
A chi appartieni? Per chi è giovane, per chi non è del Sud, questa domanda potrà, presumo, suonare strana o priva di significato.
Per noi meridionali è poesia, è vero paradigma meridiano – penso ad Albert Camus, ma ancor più al “nostro” Franco Cassano –, sono radici abbarbicate nella notte dei tempi, è il concentrato di legami di sangue e relazioni, è principio di identità, è impossibilità di restare anonimi, senza tutela, privi di cura e attenzioni.
Quando da bambino mi perdevo, spesso intenzionalmente, nel reticolo labirintico della mia “città bianca”, Ostuni, era impossibile smarrirsi per davvero: eppure di vicoli ciechi e per nulla frequentati ne aveva! Era però sufficiente che un adulto mi notasse e subito partiva la domanda: “A chi appartieni?”, cioè, “Di chi sei figlio? Come si chiama tuo padre?” o ancora, per meglio dire: “Qual è la ‘ngiuria della tua famiglia?”.
Sì, perché ogni famiglia aveva un nome e un soprannome, che nel mio dialetto si dice per l’appunto ‘ngiuria, ma di offensivo non aveva niente: perché era, semplicemente, la tua carta di identità e il tuo indirizzo, il tuo cercapersone e il tuo Google Maps. E subito eri ricondotto a casa, da tua mamma che magari era in ansia, da tua nonna che ti cercava trafelata, tra i tuoi amici che avevano continuato a giocare a nascondino tra le stradine, ma che, proprio come te, non si erano mai smarriti.
Perché, tra i reticoli di relazioni del Sud, non si perdeva mai nessuno. Tutti erano fieri di rispondere alla domanda: a cià appartin? E tutti erano pronti ad assegnare una nuova ‘ngiura allo straniero ultimo arrivato in paese. Perché anche quest’ultima pratica non aveva nulla di offensivo: era solo un modo per riconoscere, più che un provvisorio permesso di soggiorno, un autentico diritto di cittadinanza, una identità donata e accolta, condivisa.
Arrivavi da Milano? Diventavi u milanes’. Dall’Africa? Eri u marocchin’. Rientravi, con un passato di migrante, dagli Stati Uniti? Manco a dirlo, restavi a vita l’americano.
Ma, quale che fosse la tua ‘ngiuria, ti era riconosciuto diritto alla comunità e, anche tu, ove interpellato, avresti immediatamente saputo rispondere alla domanda: a cià appartin?
“Mi chiamo Paolo, mio nonno era bracciante agricolo analfabeta, mio padre, pur bravo negli studi, a undici anni è stato tolto dalla scuola ed è stato mandato nei campi a lavorare come ragazzo dell’acqua; ancora mio padre, a vent’anni, ha dovuto emigrare in Germania, da solo e senza conoscere una parola di tedesco. Appartengo a questa terra: sono un uomo del Sud”: ho iniziato così il mio salotto letterario in quel di Sant’Andrea di Conza, con il cuore gonfio di gratitudine, per il sol fatto di aver una precisa identità e di potere essere umile e fiero delle mie radici.
È molto più di quanto non tocchi in sorte a tanti uomini e donne del mio tempo. Del nostro tempo.
Cesare Pavese: «Solo ciò che è trascorso o mutato o scomparso ci rivela il suo volto reale».
Proverbio indiano: «Sono come la pianta che cresce sulla nuda roccia: tanto più mi sferza il vento tanto più affondo le mie radici».
Franco Cassano: «Pensare il sud vuol dire allora che il sud è il soggetto del pensiero: esso non deve essere studiato, analizzato e giudicato da un pensiero esterno, ma deve riacquistare la forza per pensarsi da sé, per riconquistare con decisione la propria autonomia».
Ancora Cassano: «Il sud […] prima o poi dovrà ritrovare il profilo alto e austero di sé, dovrà cercare un radicamento nuovo ma non esterno alla propria storia. E qui tradizione non vuol dire restaurazione, sogno nostalgico di gerarchie indiscutibili e quindi doppiamente oscene, ma democrazia della misura, libertà che si tiene per mano con la dignità»
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