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Ricomporre Pietre

di Marina Agostinacchio

Ricomporre Pietre. Questo il messaggio forte ricevuto dalla lettura di un articolo sull’ architetto ticinese Martino Pedrozzi che realizza in un arco di tempo di venti anni “ricomposizioni” di pietre soprattutto in Val Malvaglia.
Ma qual è la peculiarità di questo architetto? Agire in un paesaggio in abbandono composto di pietre e recuperarlo, attraverso l’esplorazione di un luogo situato “in un contesto alpino severo e aspro”.
Per quanto mi riguarda, la riflessione personale parte dalla visione di immagini fotografiche a supporto dell’articolo, immagini che riprendono inizialmente schegge e blocchi di pietre, poi riposizionate in una ricomposizione armonica. Pertanto, ciò che mi ha subito colpita è stata la visione di uno spazio disgregato e ricomposto; l’occhio è stato catturato dall’immagine prima disordinata, poi assestata.
Pietre che parlano, raccontano, come se non vogliano essere lasciate da parte, dimenticate, abbandonate. Chissà se lo spirito dell’architetto-filosofo è stato illuminato da questa nudità di forme, dal loro silenzio. Cosa narrano le cose quando si tratta di elementi che fanno un paesaggio?
Un passato, una storia remota, un’utilità poi svuotata da cambiamenti di stili di vita.
Nel caso delle pietre della Val Malvaglia, queste un tempo erano malghe adibite a ricovero per gli animali. L’articolista ci suggerisce che esse rappresentano “l architettura della necessità” a difesa di un contesto di popolazioni povere che ha fatto di necessità virtù, sapendo scoprire nel loro paesaggio essenziale una provvidenziale possibilità di sopravvivenza.
Con la trasformazione dell’economia, le malghe sono cadute in disuso e, per oltre cinquant’anni, ci dice sempre il giornalista, sono state lasciate lì a decomporsi in rovine. Ecco che il paesaggio naturale e le tracce della presenza antropica prima in un rapporto armonico, ora vivono il profondo iato all’apparenza irrecuperabile. Corpi, resti di pietra e natura sembrano precipitare in un inghiottitoio. A questo punto, però, l’idea, il recupero di parte di elementi decomposti, il recupero di una storia di popolazioni alpine. L’elemento irrimediabilmente crollato e suo recupero in una nuova prospettiva di salvaguardia. Anche se “il genuino”, il modello, non è salvabile in quanto tale, può sopravvivere nello spirito, nel suo valore primigenio come rinvio alla storia di una popolazione.
E come se non restituendo loro un valore di sacralità, nella forma cubica scelta dall’architetto, in quanto essa rimando concettuale di un’esistenza faticosa di persone che hanno saputo confrontarsi con la vita, sapendo cogliere l’opportunità che la natura offriva loro (le pietre)?
Riportare in vita ciò che è assente nella sua interezza, come testimonianza di un vissuto, mettere a confronto il prima e il dopo, che possono convivere seppure nella separazione. Questo pare il significato del lavoro di un lavoro di recupero intelligente, dove la nuova forma ha un’anima, fatta di pietre composte in compattezza. Il risultato di questo lavoro di vera e propria “ingegneria estetica” quale suggerimento potrebbe dare a noi umani?
Le esperienze di recupero e riutilizzo di materiali non sono assenti nella nostra esperienza, almeno da venti anni in qua. “Dare una seconda vita a tutto” è il mantra che ci accompagna, noi abitatori distratti e irrispettosi da troppe ere, e questo “per la salvaguardia delle risorse del Pianeta”.
Sappiamo che riutilizzare un bene significa restituire all’oggetto la sua funzione.
Qui però vorrei porre il focus del discorso su come si potrebbe restituire un senso all’oggetto frantumato dal tempo. L’operazione di attribuzione di un valore spirituale a un oggetto è stata già svolta nell’ambito del riciclo, dove le avanguardie storiche tracciano da tempo la via per un riutilizzo di elementi di scarto. Penso a una certa sensibilità ecologica, che rientra nel dibattito artistico, e oltre esso, sensibilità tesa alla valorizzazione dei rifiuti. E così potremmo citare i I “catadores” , raccoglitori di immondizia, in cerca di qualcosa di ancora utile, di Vik Muniz. Nella sua opera, l’artista crea una profonda connessione tra materiali di rifiuto e una parte della società vista come “scarto umano”. Il mezzo busto del “catadore” con la chitarra in mano appare immerso tra rifiuti di vario genere. Per non parlare poi dei collage di rifiuti di John Dahlsen che ci racconta di rifiuti riportati sulle spiagge australiane dalle maree. Essi divengono un collage che richiama paesaggi naturali. A sottolineare il rapporto tra uomo e natura nell’era post-industriale un collettivo di artisti ha fondato a Londra a metà degli anni ottanta ha creato i Mutoidi, enormi sculture semoventi, fatte di pezzi di automobili, motori, tubature, ma anche plastica e rivestimenti in plexiglass e linoleum. Aurora Robson ragiona sul modo di fare arte tra l’altro ponendo attenzione su rifiuti “impalpabili e virtuali”, colpevoli di insinuarsi abbondantemente sulle nostre vite: lo spam, sotto forma di mail che molte volte e in modo automatico finiscono nel cestino. Aurora Robson le stampa per creare dei collage cartacei con forme curvilinee e raffinate. Potremmo citare ancora i murales dell’artista portoghese di BORDALO II.
Tuttavia, tornando alla questione del riutilizzo dell’oggetto disgregato col tempo, mi pare di potere concludere che Martino Pedrozzi, nel caso specifico dei suoi interventi sul paesaggio alpino e dell’elemento succitato inseritovi, abbia saputo cogliere attraverso la ricerca, lo studio, l’analisi dello spazio e dell’intervento umano su esso, il significato profondo di una equilibrata convivenza che la storia passata sembra additarci a monito, restituendoci in una forma geometrica compatta l’anima di abitanti di un luogo di montagna. Rinvenire, riportare in vita, offrendo a chi si accosta a questa forma, quasi in una visione litolatrica, può essere davvero un modo rispettoso e condiviso di accogliere il passato.

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