Oggi ho deciso di proporvi la recensione di “Ogni mattina a Jenin” della scrittrice Susan Abulhawa
Ogni mattina a Jenin abbraccia un lungo periodo: dal 1941 al 2002.
Circa l’autrice, ecco dalla copertina del romanzo la biografia.
“Susan Abulhawa, cittadina americana, nasce da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerra dei Sei Giorni e vive i suoi primi anni in un orfanotrofio di Gerusalemme. In seguito abita in diversi paesi, tra cui anche il Kuwait e la Giordania. Si laurea in scienze biomediche all’Università della South Carolina ed ebbe una brillante carriera nell’ambito delle scienze mediche.
La trama del libro
“Attraverso la voce di Amal, la brillante nipotina del patriarca della famiglia Abulheja, viviamo l’abbandono della casa dei suoi antenati di ‘Ain Hod, nel 1948, per il campo profughi di Jenin.
Assistiamo alle drammatiche vicende dei suoi due fratelli, costretti a diventare nemici: il primo rapito da neonato e diventato un soldato israeliano, il secondo che invece consacra la sua esistenza alla causa palestinese.
E, in parallelo, ripercorriamo la storia di Amal: l’infanzia, gli amori, i lutti, il matrimonio, la maternità e, infine, il suo bisogno di condividere questa storia con la figlia, per preservare il suo più grande amore.
La storia della Palestina, intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi, si snoda nell’arco di quasi sessant’anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro.
In primo piano c’è la tragedia dell’esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, come rifugiati, condannati a sopravvivere in attesa di una svolta.
L’autrice non cerca i colpevoli tra gli israeliani, che anzi descrive con pietà, rispetto e consapevolezza, racconta invece la storia di tante vittime capaci di andare avanti solo grazie all’amore.”
Dal ‘Preludio’ che apre il romanzo
“Amal avrebbe voluto guardare meglio negli occhi del soldato, ma la bocca del fucile automatico contro la fronte non glielo permetteva. Era sufficientemente vicina per vedere che portava le lenti a contatto. Si immaginò il soldato curvo su uno specchio che si infilava le lenti negli occhi prima di vestirsi e andare a uccidere. Che strano, pensò, quello che ti viene in mente tra la vita e la morte.
Si domandò se i soldati si sarebbero dichiarati pentiti dell’uccisione “accidentale” di una cittadina americana. O se la sua vita sarebbe semplicemente finita nel marasma del “danno collaterale”. Una solitaria goccia di sudore scese lungo il volto del soldato.
L’uomo batté le palpebre, più volte. Lo sguardo fisso di Amal lo metteva a disagio. Aveva già ucciso altre volte, ma mai guardando la vittima negli occhi. Amal lo capì, e avvertì la sua inquietudine in mezzo alla carneficina che li circondava. Che strano, pensò di nuovo, non ho paura di morire. Forse perché sapeva, dal modo in cui il soldato aveva battuto le palpebre, che si sarebbe salvata.
Chiuse gli occhi, rinata, il metallo freddo ancora contro la fronte. I ricordi la riportarono indietro, e ancora indietro, a una patria che non aveva mai conosciuto.”
Il romanzo vero e proprio comincia a partire da questo punto.
Ogni mattina a Jenin
viene pubblicato nel 2006 sotto il titolo ‘The Scar of David’.
Ripubblicato col nuovo titolo ‘Morning in Jenin’ (in lingua inglese) da Bloomsbury nel 2010, viene poi tradotto in arabo e in almeno due dozzine di altre lingue diventando un bestseller internazionale.
Per il nostro paese diventa un volume di 400 pagine per conto di Feltrinelli fin dal 2011 con la ottima traduzione di Silvia Rota Sperti.
Capitolo Uno – La raccolta -1941
“In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, prima della nascita di Amal, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole.
Era ancora buio, solo i bambini dormivano, mentre gli abitanti di ‘Ain Hod si preparavano alla salat del mattino, la prima delle cinque preghiere giornaliere. La luna pendeva bassa come una fibbia che legasse cielo e terra, una scheggia timorosa di farsi piena. Gambe e braccia si tendevano, l’acqua lavava via il sonno, occhi speranzosi si aprivano. Il udu’, l’abluzione rituale prima della salat, spandeva il mormorio della shahada nella foschia del mattino sottoforma di centinaia di sussurri che proclamavano l’unicità di Dio e rendevano onore al suo Profeta. Quel giorno si pregava all’aperto e con particolare riverenza perché iniziava la raccolta delle olive. Per un’occasione tanto importante, era meglio salire sulle colline rocciose con la coscienza purificata.
E così, accompagnati da un’orchestra mattutina di piccole creature, grilli e uccellini in fermento – e presto anche galli –, gli abitanti del villaggio proiettavano ombre di luna sui loro tappetini da preghiera. La maggior parte chiedeva solo perdono per i propri peccati, alcuni compivano una rak‘a in più. In un modo o nell’altro, ciascuno diceva: “Mio Signore Iddio, che oggi sia fatta la Tua volontà. A Te la mia sottomissione e la mia gratitudine” e poi si incamminava verso ovest in direzione degli oliveti, alzando bene i piedi per evitare le spine dei fichi d’India.
…proseguendo…
Ogni novembre, la settimana della raccolta riportava a ‘Ain Hod una ventata di vitalità e Yehya, Abu Hassan, se la sentiva fin dentro le ossa. Uscì di casa di buon’ora insieme ai bambini, che aveva convinto con la sua annuale speranza di arrivare prima dei vicini. Ma anche i vicini avevano gli stessi propositi e la raccolta iniziava sempre attorno alle cinque di mattina.
Yehya si girò timidamente verso sua moglie, Bassima, che aveva la cesta con le coperte e le tele cerate in equilibrio sulla testa, e mormorò: “Umm Hassan, l’anno prossimo dobbiamo alzarci prima di loro. Voglio arrivare un’ora prima di Salim, quel vecchio balordo sdentato. Solo un’ora prima”.
Bassima alzò gli occhi al cielo. Suo marito faceva la stessa geniale pensata ogni anno.
Mentre l’oscurità del cielo si arrendeva alla luce, i rumori della raccolta di quel nobile frutto si alzavano dalle colline sbiancate dal sole di Palestina: i colpi dei bastoni dei contadini contro i rami, il fruscio delle foglie, il tonfo dei frutti che cadevano sulle vecchie tele incerate e sulle coperte stese sotto agli alberi. Mentre gli uomini faticavano, le donne cantavano le ballate dei tempi andati, i bambini giocavano e venivano ripresi dalle madri quando intralciavano il lavoro.
Yehya si fermò per massaggiarsi il collo dolente. È quasi mezzogiorno, pensò, vedendo che il sole era vicino allo zenit. Madido di sudore, stava in piedi sulla sua terra, un uomo robusto con in testa una kefiah bianca e nera e l’orlo della veste infilato nella fascia che gli cingeva la vita alla maniera dei fellahin. Osservò lo splendore che lo circondava. L’erba verde muschio scendeva a cascata dalle colline, sulle rocce, attorno e sopra agli alberi. […]”
Capitolo Due – Ari Perlstein – 1941
“Ari aspettava vicino alla Porta di Damasco, dove i due ragazzi si erano conosciuti quattro anni prima. Era figlio di un professore universitario tedesco che era fuggito presto dal nazismo e si era stabilito a Gerusalemme, dove la sua famiglia aveva preso in affitto una piccola casa di proprietà di un ricco palestinese.
I due ragazzi erano diventati amici nel 1937 dietro i carretti di frutta fresca, ortaggi e latte d’olio ammaccate del mercato di Bab al-Amond, dove Hassan era seduto a leggere un libro di poesia araba. Il ragazzino ebreo dagli occhi grandi e il sorriso timido si era avvicinato a Hassan. Zoppicava, il lascito di una gamba curata male e della camicia bruna nazista che gliel’aveva rotta. Aveva comprato un grosso pomodoro maturo, l’aveva tagliato con un coltellino e ne aveva offerto metà a Hassan.
“Ana ismi Ari. Ari Perlstein” aveva detto.
Incuriosito, Hassan aveva preso il pomodoro.
“Goo day sa! Shalom!” Hassan aveva azzardato le uniche parole non arabe che conosceva e fatto segno al ragazzino di sedersi.
Anche se Ari sapeva improvvisare qualcosa in arabo, nessuno dei due parlava bene la lingua dell’altro. Ma trovarono presto un’affinità nel loro comune senso di inadeguatezza. […]
Fu così che nacque un’amicizia all’ombra del nazismo in Europa e nel solco sempre più profondo tra arabi ed ebrei in patria, e andò consolidandosi nell’innocenza dei loro dodici anni, nella poetica solitudine dei libri e nel comune disinteresse per la politica.
Decenni dopo che la guerra ebbe separato i due amici, Hassan avrebbe raccontato alla figlia più piccola, una bimbetta di nome Amal, di quel suo amico d’infanzia. “Era come un fratello” le avrebbe detto, chiudendo un libro che gli aveva dato Ari nell’autunno della loro fanciullezza. […]”
Quello dell’autrice di Ogni mattina a Jenin è un appello accorato rivolto al sonnolento cittadino occidentale che tappa il proprio orecchio per non udire e quindi fingere di non sapere.