Di Marina Agostinacchio
Cosa accade quando cerchiamo di comunicare un pensiero, o qualsiasi ambito di vita esso tocchi, dalla risposta a una richiesta precisa, relativa a una disciplina di studio, a una comunicazione informale quotidiana, a un discorso con noi stessi? Spesso ci capita di non sentirci adeguati a trovare vocaboli “giusti” che dicano quello che siamo veramente.
La parola nasce insieme all’uomo? O è successiva alla sua creazione?
Dai tempi in cui eravamo bambini, abbiamo incominciato a emettere dei suoni, a produrre vocali, formate da una sillaba che ripetevamo: la cosiddetta lallazione.
Dallo stadio monosillabico siamo approdati a parole di più sillabe che seguivano un ordine sintattico; abbiamo imparato così a esprimere pensieri organizzati e articolati. Progressivamente siamo riusciti a estrinsecare liberamente i nostri pensieri.
Al linguaggio insomma verrebbe attribuita una peculiarità specifica dell’uomo, saldamente connessa con il pensiero. Quindi l’emissione delle parole non comporta soltanto l’apparato anatomico che produce suoni ma anche “specifici mutamenti neurologici necessari a sostenere la lingua stessa”.
Ciò secondo la narrazione di Jacob Grimm che nel gennaio del 1851 dava una propria interpretazione dell’origine del linguaggio.
Combinare intenzione comunicativa e capacità di connettere processi cerebrali, atti a inviare correttamente un messaggio, è un’operazione che scaturisce naturalmente quando parliamo.
Ma il punto è: le parole abitano dentro di noi? Viaggiano in parallelo a noi, hanno una distanza da noi, sono oggetti estranei?
Gli ultimi due interrogativi sono in realtà affermazioni di uno scritto letto qualche settimana fa in cui l’autore, Tiziano Scarpa, affermava di avvertire la lingua, (il modo di parlare fin dai primi mesi di vita dell’uomo, di esprimersi verbalmente, attraverso appunto le parole) come un sé contraddittorio.
Per quale motivo? Essa, pur cresciuta in noi – nei pensieri profondi, se elaborata nell’uso orale nella rete complessa nel cervello, se composta ai fini della scrittura nell’area specifica dell’emisfero sinistro dello stesso, che sia usata nell’immediatezza del quotidiano, come se viva nella possibilità di essere trasportabile in ogni occasione di vita, è avvertita anche come la “cosa più estranea che esista”. Come dire: così profondamente e intimamente parte di noi e così lontana da noi.
Sappiamo dalle neuroscienze come la formazione delle parole richieda molti procedimenti e differenti tra loro: dalla trasformazione di pensieri in parole, componendo frasi comprensibili, al movimento della bocca, per l’emissione di suoni corretti che rendano chiaro il messaggio che vogliamo trasmettere. Dall’astratto del pensiero al concreto del suono, la parola si fa tramite di un atto di responsabilità, dovrebbe essere portatrice di valori etici. Essa diviene così espressione della volontà e dell’agire dell’uomo, libero e razionale, un uomo che si dà valori e norme a cui attenersi e a cui adempiere.
Il suono della parola, dell’astratto materializzato, calato in una dimensione di vita tangibile, non è però ancora vita, non è ancora credibile, non è ancora tattile.
Penso che la constatazione che testimonia l’autore dello scritto, di cui ho fatto cenno, nell’avvertire intimità ed estraneità nella parola, in questi tempi, sia l’effetto della trasformazione culturale, dei comportamenti abituali, della visione della vita e della realtà, nei suoi plurimi aspetti conoscitivi, esperienziali e di costume.
La realtà non riguarda più solo il contesto ristretto in cui ci si muoveva un tempo; essa si è dilatata e include sempre più una comunicazione globale, dove, nei rapporti tra persone, i vecchi punti di riferimento si sono frammentati, sciolti in un paesaggio mobile.
Ben sapeva il poeta Giuseppe Ungaretti dell’urgenza di una parola essenziale, “tirata” fino allo stremo, una parola “data”; parola che porta in sé un tracimare di fango, di luce, pezzi di carne e di cuore atterrito, sospeso. Parola che, pur nell’impossibilità di dire tutto, tenta lo svelamento della verità. Ma erano tempi di guerra, di fatica di vivere, di gioia nel poco, accolta come intervallo tra uno scampato pericolo e uno spavento per un interrogativo esistenziale sul “tra poco”.
E allora, l’antica alleanza della parola con l’uomo pare proprio subire la sorte dei “corsi e ricorsi storici” di “vichiana” memoria. Il suo fuoco, il fuoco di chi l’esprime alla continua ricerca di “darsi” a chi la riceve, pare subire un arresto. La parola viaggia parallela; nel suo cono d’ombra, gettato accanto a noi, troveremmo il nostro riscatto in saggezza, dice lo scrittore Scarpa.
Una prospettiva interessante sul versante del linguaggio ci è data dal filosofo tedesco Heidegger, nella raccolta di saggi e conferenze (Unterwegs zur Sprache), pubblicata nel 1959, il filosofo tedesco riflette sul “linguaggio”.
Per addentrarci nello spazio – linguaggio, chiariamo intanto un problema posto da Heidegger: l’essere non può identificarsi con gli enti e non lo si può avvicinare neppure interrogando l’uomo (chiamato Esserci), definito ente privilegiato.
Per Heidegger, linguaggio razionale della metafisica occidentale è incapace di dire la differenza ontologica, cioè la differenza tra ente ed essere. Il problema della differenza va circoscritto in un in un itinerario di pensiero (l’essenza dell’uomo) che pensa l’essere a partire da un andare verso quell’elemento iniziale che regge tutto il pensiero della metafisica, il luogo d’origine, un pensiero che, mentre si rivela nel linguaggio, si nasconde nell’ente.
Ora, per il filosofo Heidegger, l’essere (ricordiamo che l’Essere è l’apparire, il manifestarsi dell’ Ente, ciò che è, l’astrazione, l’essenza delle cose che appartiene all’Essere) si svela nel linguaggio, “ma non nel linguaggio scientifico o nella chiacchiera, bensì nel linguaggio autentico della Poesia. I pensatori e i poeti ‘sono i guardiani della dimora dell’essere’ ”. Nell’essere risiede la verità a cui il linguaggio dà accesso, svelando e velando, le due condizioni.
Il linguaggio è ad un tempo la casa dell’essere e la dimora dell’essere umano, dell’essenza umana, lo spazio in cui le cose si mostrano all’uomo. Esso è il luogo della verità, dell’essenza dell’essere. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora».
Nel linguaggio del Poeta, non è l’uomo che parla ma il linguaggio stesso e in questo l’essere. Di conseguenza il giusto atteggiamento dell’uomo nei confronti dell’essere è quello del silenzio. Per Heidegger “I sentimenti che vivono e si nutrono nel nostro silenzio rivelano l’essere più dell’intelletto”.
L’uomo non è capace di svelare il senso dell’essere, ma è il pastore dell’essere, è cioè custode, (il modo in cui l’uomo caratterizza l’esistenza è essenzialmente attraverso la capacità di andare oltre se stesso verso il mondo, luogo in cui egli si “prende cura” delle cose e degli altri uomini); è il linguaggio stesso a fare dono di sé; la dignità dell’uomo risiede nell’essere chiamato dall’essere stesso a far da guardia alla sua verità.
Il linguaggio non può essere un dato determinato soggettivamente, poiché è il linguaggio stesso a parlare in noi. Solamente dimorando presso il linguaggio e porgendo ascolto al linguaggio della poesia è possibile determinare un rapporto propriamente filosofico con il linguaggio e con il mondo. Peculiarità della poesia è la capacità dello svelarsi dell’essere, la rinuncia del poeta alla parola, da interpretare però in un versante di positività. In che senso? Heidegger ci dice che la parola si manifesta nominando le cose e pertanto essa fa di sé un dono alle cose stesse, chiamandole, dando loro un’identità, una cifra identificativa. Nella forma iniziale, della poesia, nella sua apparizione primordiale di luminosità, la parola ha un carattere «sacrale»: la poesia, lingua originaria, dà nome alle cose e fonda l’essere.
Per il filosofo tedesco l’uomo è valore-in-sé e la parola è quella che rende cosa la cosa poiché la nomina. Le cose, i fatti, ogni evento appaiono perciò attraverso la parola.
Abbiamo detto che è il linguaggio stesso a parlare in noi. E ciò avviene soprattutto nel linguaggio del poeta, un cui non è l’uomo che parla, ma il linguaggio stesso e in questo l’essere. Di conseguenza, il giusto atteggiamento dell’uomo nei confronti dell’essere è quello del silenzio per l’ascolto dell’essere; l’abbandono all’essere è il solo atteggiamento corretto. L’uomo, pertanto, deve rendersi libero per entrare nella verità, concepita come svelamento dell’essere. E con ciò, libertà e verità si identificano. E, come la verità, anche la libertà è un dono dell’essere all’uomo, una iniziativa dell’essere.
Interessante poi è il discorso che Heidegger svolge sul sapere ascoltare la voce dell’Essere. Egli dice che sono i pensatori essenziali (Parmenide, Eraclito, Holderlin) e non i filosofi padri della metafisica occidentale a potere cogliere la verità attraverso l’ascolto del linguaggio. Addirittura egli arriva a sostenere che con l’eccesso di linguaggio tecnico, l’uomo avrebbe dimenticato, fatto inghiottire dall’oblio, l’Essere. Le cose avrebbero tracimato, straripato, dai loro stessi argini, le cose, divenute ormai dominatrici della realtà.
“E questo atteggiamento non si fermerà nemmeno quando arriva a minacciare le basi della vita stessa, esso è ormai onnivoro: una fede nella tecnica come dominio su tutti” (Heidegger).
Nel linguaggio risiede un appello all’uomo, cosicché il pensiero diventa ascolto del linguaggio, un porsi ” In cammino verso il linguaggio ” Esso arriva alla parola ed è così sperimentato come la casa dell’essere, luogo del verificarsi della verità, dove l’essere è custodito e protetto nel suo disvelamento e velamento- manifestarsi e nascondersi- e dove l’h può trovare il suo percorso verso la sua essenza che è il pensiero.
Ma dove il linguaggio diviene parola? Proprio dove noi non riusciamo ad esprimere la giusta parola per qualche cosa che ci intacca più intimamene nella nostra emotività; quando proviamo grande entusiasmo o tormento ad esempio. Tutto allora rimane nella zona del non detto, nell’inespresso. Il linguaggio ci lambisce ed è fugace con la sua essenza. E’ la parola che procura l’essere alla cosa.