Di Marina Agostinacchio
Stare chiusi in carcere, che si vada a visitare il recluso o che si sia proprio il recluso stesso, è come immergersi in una contaminazione di sguardi, aria, sofferenza, oppressione, bugia, verità .
Anni fa iniziai ad entrare nel carcere penale della mia città, (anche grazie al supporto dell’ allora scuola serale di Camposanpiero del CTP, ( Centro territoriale permanente) e della collaborativa insegnante della classe Daniela Lucchesi, portando un percorso di scrittura nella scuola media del penitenziario.
Devo dire che nei tre anni quasi consecutivi di lavoro primaverile volontario (2014-2015-2017) ho potuto pormi in relazione ricca di scambio umano e conoscitivo con i carcerati.
Pur mancando certo l’apparato normativo che regolava la vita dei detenuti, nei momenti dedicati al lavoro scritto, ci si poteva esprimere e cercare un “sentiero interiore” per essere sé stessi in uno spazio che, nel momento specifico dell’attività, si allargava interiormente.
Il primo anno il percorso partii da Dante, tema: la metamorfosi attraverso i canti di Pier delle vigne e Ulisse ( canti XIII e XXVI).
Poter “viaggiare” tra le parole del poeta, tra le parole associate ad esse, scegliere quelle che più “cantavano dentro sé” la propria vita, la propria condizione e rimandavano a un desiderio di altro da sé, esistente anche nella vita che si agitava dentro sé stessi, costituiva una sfida di fronte al pubblico che loro stessi, i detenuti, avevano: i compagni di stanza, gli insegnanti.
Eppure tutto avveniva dentro a pochi metri calpestabili, col sole che si lasciava intravedere nel giardino attraverso i riquadri delle sbarre.
L’attività di scrittura metteva le ali all’autostima. Ognuno di loro si sentiva poeta, scrittore, lettore delle proprie storie narrate.
Certo la proposta di scrittura era una tra altre che il carcere offriva.
Tuttavia, mi dicevo quando uscivo, ” Il carcere è sempre un luogo dove perdi la tua libertà” e se anch’io mi sentivo dentro a quell’ingranaggio di reclusione, per “immersione” alle storie di ciascuno dei detenuti della classe, vedevo la mia offerta formativa, come altre importanti che il penitenziario offriva a quegli uomini, come occasione di autonomia e crescita personale
Il problema del sovraffollamento delle carceri in Italia è noto ma forse poco “preso a carico” dalle coscienze dei cittadini.
Il carcere non può essere il luogo del rifiuto del diverso ma dovrebbe divenire realmente la possibilità di un riscatto, attraverso una rieducazione e una consapevolezza dello sbaglio, la possibilità di una ricerca di senso della propria esistenza, una nuova nascita. Una possibilità per un eventuale reinserimento credibile nella società.
Anche nel caso in cui il carcere sia “per sempre”, si dovrebbero considerare, nelle scelte politiche, decise all’interno delle case di reclusione, le molteplici opportunità di rieducazione come punto fondamentale da cui partire perché i carcerati riacquistino dignità e riappropriazione del proprio essere uomini e donne.
Trovare uno scopo e un credo positivo in sé,anche all’interno di questi spazi limitati, attraverso un fare della mente e del corpo, può cambiare prospettiva di vita.