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I MIEI DIRITTI ESISTENZA E LEGITTIMAZIONE: Umanità

Ecco, qualcosa che canta nel petto.
Leggiamo e ascoltiamo Patrizia, un racconto che parla di solitudine, di soccorso, di Umanità!

“…Ma io stamattina sono ricca, la luce mi sembra più forte, la brioche al cioccolato che mi concedo buonissima, qualcosa mi canta nel petto”.

Di Patrizia Anconetani

Puoi ascoltare la voce di Patrizia che ti accompagnerà nella splendida lettura al link che puoi aprire con Google se non hai Spotify Podcasters:

“Avete fatto un atto di umanità”. Con gli occhi stanchi di un’alba appena accennata dopo la notte di servizi uno in coda all’altro, Federico ci guarda con un mezzo sorriso buono.
Umanità non è una parola. Umanità è la lente attraverso la quale vedi il mondo, il telecomando che ti porta nelle vite e a volte nei corpi e nei pensieri delle persone che ti trovi ad assistere. La ricchezza più grande è una donna, molto avanti negli anni, stupita quasi da ciò che le accade intorno, fragile e determinata, abituata forse troppo ad essere lasciata sola, in modo disumano sola, in una casa troppo grande ed elegante nella parte “centrina”, dove un garage ti costa quanto una villetta in periferia, oggetti di valore, tele alle pareti.
Chiama i numeri che trova e non sono nemmeno le quattro del mattino, stavamo dormendo, ognuno per recuperare stanchezza in vista di un giorno di lavoro che attende alla fine del turno.
Sono stata chiusa in casa”. Non ricordo se usa parole come “prigioniera”. La faccio breve, dopo pochi minuti avanti al portone inesorabilmente chiuso di casa sua si è formata una folla, sembra di essere ad una parata per la presenza di persone, divise e mezzi. Le forze dell’ordine, quattro poliziotti, noi quattro e a breve i vigili del fuoco, anche più numerosi di noi.
La polizia ha già le informazioni disponibili, numero di telefono, tutto. Si bussa, si suona, si prova a chiamare. Nulla. Cresce la paura di essere arrivati troppo tardi in una situazione di cui ci mancano contorni e trama.
Una vicina si affaccia sulle scale dal piano superiore e cominciamo a chiedere per capire. E’ spaventata, dice di essere ipertesa, avanti con gli anni anche lei, ma con quella sicurezza di affetti che vuole condividere. “Sono una nonna ed ora sono sola ma durante il giorno ho qui tutti i miei nipoti”. La solitudine spaventa anche solo a nominarla ed essere amati, seguiti, accuditi o farlo per gli altri, sono merce rara. Le sorrido e dico che secondo me ha la faccia di una che cucina bene. Si rilassa. Senza bisogno di strumenti sento di poter dire che frequenza cardiaca è un po’ scesa, sul viso l’ombra di un sorriso. Diventa collaborativa e mi invita ad entrare a casa sua, mi racconta un po’ della signora che sente lamentarsi, a volte la spaventa, forse è un po’ andata con la testa.
Chissà che succede “laggiù”. Escono dei numeri di telefono di nipoti. Le chiedo perchè non ha le chiavi, in quella situazione sarebbe stato molto utile. “No no, non voglio problemi, è una responsabilità”. Penso alla mia vicina di casa e a tutte le volte in cui mi sono chiusa fuori, con il cane, con la spesa, con mia figlia seduta sulle scale che telefonava alle amiche raccontando della sua mamma sbadata che lasciava le chiavi ovunque meno che dove dovevano stare.
Intanto poliziotti e vigili del fuoco provano ad aprire la porta senza danneggiare nulla. Siamo sul set di un film e se non fosse per il freddo di gennaio, mi siederei a guardare. I poliziotti che chiamano la centrale, i vigili del fuoco che tirano fuori strumenti mai visti per provare ad aprire, noi e il nostro zaino rosso di primo soccorso. Dentro ad una bolla. Il sonno o il freddo ci fanno tremare, mi stringo nella giacca e faccio il conto delle ore che mancano alla mattina. E’ già mattina.
Sentiamo un suono venire da dentro, il telefono del poliziotto che chiama. La vicina da sopra dice di sentire il campanello suonare. Bene, la signora sta chiamando, è un ottimo segno. A questo punto la finestra è l’unica soluzione, è al primo piano, la scala contro il muro esterno e con un colpo i vetri cadono, con i guanti il vigile del fuoco li toglie ed entra. Ci apre la porta, entriamo anche noi.
Una bella casa, elegante nell’arredo, oggetti di ottima fattura, antichi. E’ come se il tempo si fosse cristallizzato in una immobilità polverosa.
Lei nel lettone sembra una bambola con il corpo che si muove e le gambe che restano ferme, lo sguardo è stupito ma allo stesso tempo sollevato, i capelli bianchi sollevati dietro come cotonati, un ciuffo che sale in alto in modo innaturale. E’ la posizione nel letto che ha scolpito i capelli. Parla confusa ma con un lessico ricco, chissà chi è stata questa donna prima che il tempo e la malattia la rendessero tanto fragile.
La verità è che per lei si è mosso il mondo ma non ha una situazione che richieda trasporto in pronto soccorso, le basterebbe una persona dedicata ad aiutarla a fare quello che da sola non riesce più a fare, si è svegliata ed ha pensato bene di chiamare il mondo per ricordare al mondo che esiste ed ora vorrebbe che il mondo restasse lì con lei a tenerle la mano e a farle coraggio per i momenti in cui, da sola, torna la paura.
Chiamiamo la centrale operativa per chiedere come procedere, si lei ha una badante ma per due giorni non c’è. Le hanno lasciato uno scatolino sul letto con dei crackers. Non vedo neppure una bottiglia d’acqua.
Non è in pericolo di vita, non possiamo fare nulla per lei, i vigili del fuoco se ne sono già andati, il poliziotto si è seduto su una sedia con la testa tra le mani e come noi credo stia respirando tristezza a boccate. Certo nel suo universo professionale ne avrà viste di tutti i colori e questa signora è quasi acqua fresca, o forse no.
Mi sento impotente, non cambieremo nulla, ma proprio nulla del suo sguardo disorientato, andremo via e basta. Nel tempo breve cerco di immaginarmi lì, su quel letto, imprigionata in un corpo di cui risponde la metà mentre cerco di darmi riferimenti, mentre i “non posso farlo” vincono a man bassa sui “vorrei riuscire”. Mi sento un groppo alla gola, è troppo grande la sofferenza, la paura di essere un giorno prigioniera di un corpo che non risponde, alla ricerca di mani cui aggrapparmi, senza nemmeno la lucidità dei pensieri a farmi compagnia.
Non è facile o scontato fare quello che facciamo, entriamo nelle vite delle persone nel momento peggiore, ci resta addosso il peso degli sguardi, di ciò che è detto o chiuso nei silenzi. Non è facile, non ci credete se ve lo diranno. Nulla di ciò che è davvero importante è in discesa.
Penso di tirarla su come facevo con mia madre, sistemare una sedia nella vasca con un asciugamano profumato di sapone marsiglia sopra e lei come una regina a sentirsi scorrere l’acqua calda sulla pelle e sui capelli, piena di schiuma e bolle, solo per sentire la musica della sua risata. Penso di lavarle quel ciuffo bianco dritto come il pennacchio di un cavallo da circo e farlo diventare pulito, morbido e pettinato. Di cambiare le lenzuola e aspettare il giorno pieno per far entrare un po’ di sole.
“Già che siamo qui, vuole che la aiutiamo ad andare in bagno?”, si illumina, “magari, ma la badante sa come fare, potete aiutarmi a cambiare il pannolone?” Io e Catia ci guardiamo, sta pensando come me che quella donna merita più dell’abbandono in cui versa, che forse una cosa piccola piccola possiamo farla.
E la facciamo, la cambiamo tutta, pannolone e traversa, pantaloni bagnati, tutto. Veloci e precise come abbiamo imparato a fare con le nostre madri, pensando a quante volte loro lo hanno fatto a noi da piccole.
Perchè così dovrebbe essere, si arriva ad un punto in cui l’amore ricevuto si restituisce, anche se toglie il tempo, il sonno e costa fatica.
Il sorriso che ci regala è un dono splendido, quasi stupita, si gode questa ritrovata pulizia, questo momento di cura.
E’ stato contattato il nipote, tra poche ore sarà qui e si occuperà di evitare che succeda di nuovo una cosa del genere. Sarà vero? Non lo sapremo mai. Noi volontari siamo protagonisti di storie a finale aperto, che quasi sempre non conosceremo.
Vado per sciacquarmi le mani in bagno, dal dispenser esce acqua. Nemmeno il sapone nel bagno. Mi sale un nervoso. Non devo giudicare, spingo indietro un Ma grande come l’intero appartamento. Se lascio che il Ma prenda il sopravvento non sono utile a nessuno.
Andiamo via stringendole ancora una volta la mano, nemmeno il tempo di pensare, saliamo e siamo già in strada per un’altra chiamata.
Spesso ci chiedono se veniamo pagati, l’altro principio, volontarietà, sembra così strano non trasformare, in questa società senz’anima: il lavoro in denaro, i giudizi a scuola in voti numerici, i sentimenti in contratti e le vite in scadenze.
Ma io stamattina sono ricca, la luce mi sembra più forte, la brioche al cioccolato che mi concedo buonissima, qualcosa mi canta nel petto.
Ci pagano si, molto più di quanto banconote e monete possano fare…

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