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Essere donna, far rete, insegnare la solidarietà

Di Marina Agostinacchio

“Non dimenticate mai che sarà sufficiente una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione. Questi diritti non sono mai acquisiti. Dovrete restare vigili durante tutto il corso della vostra vita”. (Simone de Beauvoir).
Mai come in questo periodo tornano in mente le parole della scrittrice francese; periodo di pandemia che ha investito molti ambiti dell’esistenza soprattutto al femminile; assistiamo a una trasformazione a tutto tondo, sociale, economico, politico. E che dire poi dell’aspetto delle relazioni tra esseri umani? Nel giro di un anno abbiamo imparato a surrogare l’incontro vero con i nostri simili attraverso la tecnologia, abbiamo modificato la gestualità, sacrificato il piacere e il bisogno di un abbraccio, dell’abbandono del corpo, della percezione e dell’emozione, della commozione, della meraviglia, dello stupore, della sorpresa, vissuti “in diretta”.
Essere donna ha comportato raddoppiare lo svantaggio preesistente, specie, ora, con lo tsunami della pandemia.
Così tutto ciò che investe la sfera sessuale lavorativa volta alla difesa della cura e della riproduzione della vita ha visto crescere le ingiustizie.
Ma a prescindere… penso a scelte riguardo alla maternità, considerata in senso classico, dalla gestazione alla crescita del figlio; alla Maternità surrogata tradizionale, all’inseminazione intrauterina da parte dell’uomo; alla Maternità surrogata gestazionale, che comporta la decisione di ricorrere ad una donna sostitutiva per portare avanti la gravidanza e dare alla luce un bambino “biologicamente estraneo per lei” e che dopo il parto sarà dato in affido ai genitori genetici.
E poi rifletto sul difficile ruolo di genitori: dall’educazione dei figli, alle opzioni formative di crescita- a carico spesso della donna- di fronte a cui ci si trova, alla conciliazione tra vita lavorativa e vita famigliare.
Inoltre considero anche altre forme di genitorialità -però, in questo contesto di scrittura- esclusivamente femminile, nata da battaglie civili per potere vedersi riconosciute il diritto ad avere un figlio, attraverso vie diverse.
Molti altri, tuttavia, sono gli scenari femminili che si aprono ai nostri occhi, come quello dell’identità trans e «non binarie», nel senso di identità non strettamente e completamente maschili o femminili.
Ed è quindi fondamentale compiere continuamente atti di riflessione, porsi domande su questi temi, rinunciando a sterili ideologismi, verità precostituite, posizioni di superbo autoelogio delle proprie convinzioni. Ho sperimentato di tanto in tanto l’arte dell’ascolto, del silenzio, dell’attesa della parola “diversa” dalla mia. E’un esercizio difficile, ma serve a rieducarsi, a rivedere le proprie posizioni su determinati argomenti. E’un esercizio che implica la consapevolezza di essere parte di una rete di rapporti dove il pensiero si dovrebbe formare attraverso l’esperienza comune e condivisa. Non esiste, a mio avviso, un individuo autosufficiente, estraneo a condizionamenti e ad emozioni scambievoli.
Per educarci a un’azione libera non possiamo prescindere dalla coscienza di essere parte di un ingranaggio complesso, fatto di una realtà che non ci esime dalla dipendenza dall’altro. Il che vuole dire educarci a una volontà rispettosa e inclusiva del contesto in cui viviamo. La scuola, mi sento di dire, è la palestra di questo esercizio, della pratica, della concretizzazione, del lavoro quotidiano inclusivo. E da anni ormai, di questo tipo di esercizio molti insegnanti hanno imparato a farne uso, arricchendosi in didattica e in umanità.
Se l’essere parte di una rete di relazioni ci può portare al rischio di una deriva di omologazione, dall’altro conduce senz’altro a un recupero di energie e di vitalità propositive, a una comprensione più ampia del pianeta donna di fronte a cui ci troviamo, fatto di modi comunicativi plurimi, di linguaggi stratificati, che vanno scandagliati e interpretati.
Se pensiamo al cammino dell’affrancamento femminile da stereotipi e pratiche di vita, possiamo recuperare dalla memoria i tempi dell’educazione patriarcale che imponeva alle donne una considerazione di sudditanza nel lavoro e nella libera espressione del proprio pensiero. Questo avveniva non solo in relazione al fatto di un’appartenenza a gruppi sociali, ma anche all’interno delle mura domestiche.
C’è stata poi l’epoca della protesta, di posizioni ultraliberiste del femminile, per giungere a posizioni di chiusura in un individualismo edonistico, dimenticando spesso che l’agire libero deve tenere conto del contesto di relazioni dense, fatte da socializzazione, relazioni interpersonali che presuppongono l’interazione con l’altro: di conseguenza l’accettazione che nella propria vita entri la vita di un’altra persona. Non sto quindi parlando di relazioni interpersonali che mirino a rafforzare il proprio sé individuale.
Ovvio che il passaggio fluido di pensiero e comportamento all’interno di una rete di rapporti condizioni la gestione organizzativa del lavoro, la struttura sociale, le decisioni politiche di una comunità. Tuttavia, l’esercizio di una vita così ricca e complessa nasce dalla consapevolezza di essere parte di un tutto, porta il beneficio di un superamento di comportamenti e pensieri cristallizzati.
Oggi, nel flusso della pandemia, è ancora più chiaro che non possiamo considerarci atolli vaganti in mari solitari.
Questo è un tempo in cui dobbiamo essere presenti a che non ci si inoltri in scenari già attraversati, in cui si facciano valere forza interiore e capacità di tradurre le idee in azione, la creatività, l’innovazione.
Questo è un tempo in cui abbiamo scoperto le falle della vita privata, dove l’essere donna ha pagato a caro prezzo il costo della vita lavorativa e genitoriale.
E soprattutto sono emersi problemi già preesistenti anche in paesi democratici, sul versante femminile e a carico di donne svantaggiate, donne dal retroterra migratorio, o portatrici di handicap.
Secondo il rapporto dell’Ufficio stampa del Parlamento europeo si evince che:
“A un anno dalla diffusione dell’epidemia di coronavirus, si teme che la ricaduta sociale ed economica possa innescare impatti a lungo termine sull’uguaglianza di genere. Una minaccia non solo ai progressi fatti finora, ma anche un concreto pericolo per altre 47 milioni di donne e ragazze in tutto il mondo di ricadere sotto la soglia di povertà…. Dei 49 milioni di persone impiegate nel settore sanitario, uno dei più esposti al virus, ben il 76% di esse sono donne… Inoltre, le donne sono sovra rappresentate nei servizi essenziali rimasti aperti durante la pandemia, che vanno dalla vendita all’assistenza all’infanzia. Nell’UE, le donne rappresentano l’82% di tutte le persone addette alle casse e il 95% delle persone impiegate nei lavori domestici e assistenziali.”.
Per non rischiare “involuzioni autoritarie” possiamo cogliere l’opportunità di ispirarci a modelli di solidarietà, di inclusione e di libertà nati da una capacità di resilienza tutta femminile.
E così il volto femminile durante il lockdown è riuscito a superare la contingenza che investiva le vite di tutti noi, creando reti, grandi e piccole, dal condominio al gruppo di lavoro, ricercando un modo di trasformare la chiusura in qualcos’altro.
Ho scoperto racconti espressi attraverso video, nati da un progetto di Cristina D’Eredità, coadiuvata da Eleonora Marino, co-regista e montatrice, che durante il primo lockdown, ha proposto di raccontare la pandemia dal punto di vista delle donne all’interno di un gruppo composto da professioniste dell’audiovisivo su Facebook.
Le due donne ci raccontano “la quotidianità delle commesse del supermercato, la dottoressa che si sveglia nella notte in preda all’ansia e agli incubi, la donna che in quarantena è riuscita a scappare da un compagno violento chiedendo aiuto a un Cav, la ragazza che vive in un seminterrato di 30 metri quadrati e dalla finestra vede le piastrelle del cortile e un pezzo di cielo. E poi ci sono i giochi sulle terrazze con i bambini, l’insegnante in DaD, la figlia che si prende cura della madre anziana, le feste di compleanno via WhatsApp, gli orti sui terrazzi, la solidarietà”.
Quanta resilienza e bellezza in queste narrazioni! Lo sguardo femminile in questo senso supera le contingenze: sostenere l’altro aiuta a sostenere sé stessi e ciò ha impresso un forte segno evolutivo al momento che stiamo attraversando.

Articolo pubblicato nel giornale online “Lo scrigno di Pandora”

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