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Donna, vita, libertà -UNA MADRE GIOVANISSIMA

UNA MADRE GIOVANISSIMA (da “L’eredità della madre”- BookaBook editore)
Di Bruno Trevellin
La lettura di questa narrazione di Bruno Trevellin è un omaggio alla figura femminile per eccellenza: la madre.
E’ la storia di una donna che, molto giovane, si trova a vivere tra pregiudizi, difficoltà, con animo risoluto, da vera guerriera.
Scrive l’autore: “Correva l’anno 1958, l’anno della rivolta femminista della mia giovanissima madre”.

Letto d’un fiato La mia casa di campagna di Comisso.
La “mia” è quella bassa dei nonni a Sarmeola, quella delle vacanze estive e delle scoperte fatte andando da solo per i campi o seguendo il nonno nei lavori, quella che mia madre lasciò; ma è anche quella degli avi paterni a Taggì di Sopra, dove sono nato, dove lei andò a finire con il matrimonio celebrato in fretta a novembre perché incinta, a diciannove anni, e dove rivoluzionò le abitudini antiquate dei mezzadri che la abitavano. Lì, appena giunse, nella casa in mezzo ai campi, lontana dalla via comunale quasi un chilometro – la si raggiunge ancora oggi da una lunga e tortuosa carrareccia –, doveva pranzare e cenare in disparte con le altre donne: gli uomini in cucina, serviti; loro, le donne, vicino al focolare. Lei, che non conosceva quella sottomissione patriarcale, sopportò la separazione solo per alcuni giorni, ma poi per protesta decise di mettersi a mangiare da sola in camera da letto, minacciando che, se la situazione si fosse mantenuta tale e quale, se ne sarebbe pure andata da quella casa condivisa, affollata e isolata in mezzo ai campi. Correva l’anno 1958, l’anno della rivolta femminista della mia giovanissima madre.
Mio padre si schierò dalla sua parte e iniziò anche lui a mangiare con lei su in camera. Nessun compromesso. Dopo qualche giorno di musi duri – così ha sempre raccontato – decisero che si sarebbero seduti tutti insieme, uomini e donne, alla stessa tavola in cucina.

Lei però si era maritata incinta e per quel peccato il prete la costrinse a portarmi alla fonte battesimale non dalla porta centrale, ma da quella laterale. E la obbligò pure a chiedergli scusa perché in vista della cerimonia aveva osato andare a confessarsi con il marito da un altro prete anziché da lui. Fu un’umiliazione che non gli perdonò, al punto che fino a poco tempo fa, quando cioè ancora andava al cimitero per cambiare i fiori a mio padre, senza che nessuno la vedesse, buttava l’acqua putrida del suo vaso sulla tomba del prete che l’aveva umiliata a diciannove anni con il mio battesimo così diverso, come se il suo primogenito non fosse uguale agli altri, ma figlio di un Dio minore. I due, mio padre e il prete, in cimitero sono finiti in tombe vicine e mi sa che lei è sempre stata convinta che il marito da morto abbia continuato a protestare risentito anche davanti al Padreterno per quella vecchia storia.

Mia nonna Maria dal casolare di via Frascà guardava verso nord, dove si scorgeva a cinque o sei chilometri di distanza il campanile di Taggì. “Ecco,” mi diceva in dialetto “quando guardo di là e vedo il campanile, è come per ricordarmi che in quel paese è andata a vivere mia figlia. Non è lontana, ma ormai ci vediamo così poco!”. Io, quando tornavo a casa, mi mettevo sul poggiolo e provavo a cercare con l’occhio il casolare dei nonni, ma niente, era troppo lontano, non riuscivo a vederlo e poi era troppo basso e in mezzo c’erano siepi, vigneti, campi di pannocchie, il terrapieno della provinciale. Nel silenzio della notte riuscivo però a sentire il treno della linea Padova-Vicenza, sapevo che passava vicino alla loro casa di campagna, da dove era partita mia madre, che forse in quell’ora era sveglia e ascoltava anche lei quel treno correre veloce sulle rotaie. Sapevamo entrambi che dopo il casello di Villaguattera mancavano ancora solo pochi minuti per essere nella sua vecchia casa.

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