DONNA VITA LIBERTA’ Silvia Benacchio- La questione femminile nei paesi medio orientali e limitrofi
DONNA VITA LIBERTA’ (Jin Jiyan Azadi in curdo)
La questione femminile nei paesi medio orientali e limitrofi
Di Silvia Benacchio
Puntuale e dettagliata la disamina sulla situazione della violazione dei diritti umani violati ancora presente in alcune aree della terra.
Un invito a leggere per conoscere e interiorizzare lo stato delle cose, solidarizzare come donne e come esseri consapevolidei nostri diritti inalienabili.
Lo scalpore e l’indignazione che poco tempo fa aveva scatenando l’illegittima incarcerazione della giornalista Cecilia Sala in Iran sono stati la conseguenza dell’avvenuta comunicazione generalizzata da parte dei media del persistere di una sistematica situazione violativa dei diritti umani essenziali, nel qual caso, in particolare, del diritto di libertà, in quel Paese.
E soprattutto del diritto di libertà in generale delle donne, che a proposito del caso Sala ha fatto dire ad Azar Nafisi, scrittrice iraniana-americana, nota per il suo più famoso romanzo “ Leggere Lolita a Teheran“, che “La libertà non è né orientale né occidentale. La libertà è universale”.
Nel caso specifico, pur tuttavia, non poteva poi non considerarsi che si trattava di una giovane donna, occidentale, giornalista, cittadina di un Paese di poco peso politico nella geografia mondiale, ove dilaga però il principio del “not in my home” e quindi la carcerazione di Cecilia Sala in-dignava tanta parte degli italiani probabilmente, essenzialmente e se non altro solo perché italiana.
Ma, prima di ogni considerazione sul trattamento delle donne in alcuni Paesi del medio oriente e zone limitrofe, a prescindere poi dalla critica del trattamento carcerario in sé, riservato sia a donne che a uomini, materia di costante violazione di diritti umani, sono necessarie pur tuttavia alcune brevi e sintetiche premesse, che riguardano le nazioni più irrispettose dei diritti femminili.
Dal 2005 in Iran veniva particolarmente attivato il corpo della polizia mo-rale (Gasht-e Ershad, già nato comunque sotto il regime dello Scià) , forza armata militare-repressiva, composta da uomini e donne, che ha il compito di sorvegliare e reprimere i comportamenti dei soggetti, in particolare donne, ritenuti non osservanti della shari’a, fra quelli riguardanti l’abbigliamento e l’atteggiamento in pubblico. I sistemi repressivi adottati da tale corpo si sono fatti via via più violenti negli ultimi anni, a partire dal 2022, come testimoniato anche dalla morte di Mahsa Amini e di Ar-mita Geravani, “ree” di non portare o mal indossare lo hijab (il velo isla-mico).
A seguito del decesso di Mahsa, con lo slogan “donna vita libertà”, è sor-to un movimento di giovani donne e uomini (per lo più studenti) che ha quindi contraddistinto tutte le proteste e le manifestazioni libertarie nel Paese, che si sono succedute e che sono state duramente represse in que-sti due ultimi anni: pur tuttavia a tutt’oggi l’Iran persiste in una politica di sottomissione nei confronti delle iraniane in nome di non ben definita legge religiosa di Allah, derivante dal Corano e dalla Sunna.
E tante, troppe, sono infatti le donne imprigionate perché dissidenti e op-positive al regime che si richiama a precetti religiosi appositamente co-struiti e applicati per reprimerle.
“Donna vita libertà” non sono però termini recenti e sono stati adottati già a suo tempo dall’ideologia di liberazione femminile curda di Abdullah Ocalan, che descrive la “gineologia” (in curdo jineoloji ovvero “scienza delle donne”) come forma di femminismo indispensabile all’uguaglianza di genere e soprattutto alla democrazia di un Paese. Ocalan infatti afferma che “la portata della possibile trasformazione della società è determinata dalla misura della trasformazione raggiunta dalle donne… la democratiz-zazione della donna è decisiva per la costruzione permanente della demo-crazia e del laicismo … una donna liberata costituisce una società libera-ta. La società liberata a sua volta costituisce la nazione democratica“ (In Liberare la vita-La rivoluzione delle donne, 2013).
Sulla scorta del concetto di gineologia è sorta la prima esperienza pratica nella regione del Rojava nel nord della Siria, dove la comunità curda ha creato un’enclave, aperta anche ad un certo multiculturalismo, ove vige la democrazia diretta su modello confederalista, basata sull’autogoverno e su un’economia sociale, con una partecipazione femminile non inferiore al 40% in ogni organismo politico, militare, sociale ed economico.
In Iran, invece, oltre alla polizia morale, oggi sta prendendo piede pure l’idea di creare uno o più centri di rieducazione per le donne che rifiutano il velo: dopo la spogliazione della studentessa Ahou Daryaei, arrestata lo scorso anno 2024 e di cui oggi non si hanno più notizie, è stata invero avanzata la teoria che solo chi ha una patologia mentale-psichiatrica può rifiutare lo hijab e pertanto va curato. Sostanzialmente si tratterebbe di una clinica psichiatrica tesa “al trattamento scientifico e psicologico della rimo-zione dell’hijab specificatamente per la generazione degli adolescenti, dei giovani adulti e delle donne che cercano un’identità sociale e islamica” (così Mehri Talkebi Darestani direttrice del centro clinico).
Dunque le donne iraniane che hanno anche solo la “sventura” di mostrare un ciuffo di capelli che fuoriesce dal velo vengono giudicate o criminali o pazze, con la conseguenza di farle rinchiudere o in prigioni terrificanti o in manicomi altrettanto terrificanti.
Le donne iraniane che un tempo potevano studiare e lavorare in posti rile-vanti della vita politica e sociale, ora si vedono retrocedere ad un ruolo di sottomissione inaccettabile e umiliante. E’ il noto caso dell’avvocata Nasrin Sotoudeh condannata per la seconda volta nel 2018 a 33 anni di carcere e a 148 frustate per “incitamento alla corruzione e alla prostituzione” e “com-missione di atto peccaminoso” per essere apparsa in pubblico a capo sco-perto, senza velo.
E’ il caso di Narges Mohammadi, ingegnera, giornalista e attivista, premio Nobel per la pace 2023, arrestata per ben 12 volte. E come loro tante altre meno note.
Non stanno meglio neppure le donne dei Paesi vicini, in particolare quelle dell’Afganistan che con la riconsegna del Paese ai talebani nel 2021 sono ritornate ad un regime di segregazione e di apartheid che le reclude in casa e non le fa vedere neppure attraverso le finestre di casa propria (l’ultima direttiva è la chiusura delle finestre da dove si possono vedere all’esterno le donne all’opera): alle donne afgane è assolutamente vietato uscire di casa se non con un parente maschio (il tutore), non possono far vedere il loro volto e il resto del corpo ad estranei e in pubblico, per cui devono indossare il burqa, non possono cantare (la voce femminile è “awrat”, sconveniente, da nascondere in pubblico) e ascoltare musica, parlare in pubblico, andare a scuola oltre i 14 anni, lavorare in certe professioni (sanitarie, scolastiche, educative, politiche,etc.). I talebani hanno adottato un compendio enorme di vecchi e nuovi divieti, raccolti in una sorta di codice finalizzato a “pre-venire il vizio e promuovere la virtù”, sulla scorta del principio talebano che non devono “indursi gli uomini nella tentazione e nel vizio”. Ecco quindi la donna demonio-tentatore, per il solo fatto di essere donna.
In Afganistan dunque le donne passano da una prigione all’altra; o chiuse in casa, o nelle carceri (la donna senza burqa e il suo tutore maschio rice-vono minimo 3 giorni di carcere), o chissà dove.
Non è da meno la situazione delle donne irachene che, sul modello del vi-cino Iran, sono obbligate allo hijab, sottoposte a matrimoni precoci, limitate nella loro autodeterminazione e libertà.
In questi paesi dove attualmente sta con estrema difficoltà prendendo pie-de il movimento “donna vita libertà” la repressione va facendosi sempre più serrata e cruenta: mi sono quindi chiesta la ragione di ciò.
Considerato che nei sacri testi islamici in realtà non si rintracciano divieti specifici sulla libertà delle donne. E dunque mi sono chiesta: perché si deve imprigionare e torturare una donna solo perché non si copre bene il capo? O mostra una caviglia? E’ forse ritenuta pericolosa?
Sono giunta alla conclusione che la risposta è forse più semplice di quanto può pensarsi: la donna non è pericolosa in realtà (del resto che male può fare un capo scoperto? O un essere fisicamente più debole e fragile dell’uomo?) ma è oggetto di un potere maschile che non la riconosce come essere umano.
Prova ne sia persino l’omissione di dare la mano in segno di benvenuto ad una donna, anche nelle occasioni ufficiali internazionali, riservandolo solo ai maschi.
Per l’uomo che vive in questa parte del mondo la donna non è un essere umano, né un essere animale, a cui assomiglia solo per la riproduzione, da-to che le mandrie di bovini e cavalli e i greggi di pecore e capre sono più protetti e non sono nascosti.
Quindi l’essere femminile è considerato esclusivamente una fattrice e una schiava-serva che non necessita di visibilità e anzi deve stare rinchiusa da qualche parte, casa, carcere o manicomio che sia. E deve essere nascosta perché come tale è un essere inferiore, predabile e sacrificabile.
E poiché sul piano umano e logico queste considerazioni non trovano cer-tamente fondamento, ecco che allora ci si inventa il pretesto del pensiero religioso, sostenendo che è il verbo del dio che lo impone e dio … non si può contraddire! E dunque si arriva in tal modo al c.d. “diritto sacro”, dove il verbo della sharia’a diviene legge religiosa, legge giuridica e politica, re-golante tutta la vita di una persona
Peccato però che la shari’a non dica espressamente che le donne devono andare in giro a capo e corpo integralmente coperto, non devono uscire di casa da sole e non andare a scuola, non devono cantare e ascoltare musica, e altro: il testo sacro da solo delle indicazioni, delle raccomandazioni che possono perciò essere ampiamente interpretate e applicate dagli uomini e dai capi religiosi a loro discrezione .
L’haram, il vietato, il proibito, a parte i reati tipici, in realtà indica in modo generico tanta parte del comportamento o la situazione vietati dalla fede islamica, senza indicare che vi siano poi dei comportamenti fisici e verbali vietati per le sole donne, come quelli di cui si è detto.
Ne consegue che la mia conclusione di “inesistenza femminile” appare sempre più rafforzata, anche a causa della più completa indifferenza del mondo occidentale che non si occupa affatto dei diritti fondamentali delle donne al di fuori dei suoi confini e tollera, se non condivide, l’apartheid che viene loro riservato in nome dello strapotere maschile.