Diritti Traditi: quella della porta accanto.
Emma Fenu e la realtà dei manicomi
Tra i diritti negati o traditi, presentati attraverso la voce di donne diverse in questa rubrica, oggi ve ne propongo uno particolarissimo: donne e malattia mentale.
Inizio questo articolo dando la definizione del termine Manicomio.
La parola “manicomio” deriva dal greco “manìa”, ovvero “pazzia”, e “komìon”, cioè “ospedale”. Questo termine è utilizzato soprattutto per indicare, più che un luogo di cura, un ambiente in cui venivano internati e segregati i malati di mente.
Per la riflessione di oggi, prendo spunto da un libro, alla sua ventesima edizione, Dieci giorni in manicomio- Edizione: Edizioni Clandestine, 2023- di Nelly Bly- vero nome è Elizabeth Jane Cochran,una giornalista statunitense che, incaricata, nel 1887 dal New York World, si finge malata, per farsi rinchiudere nel manicomio dell’isola Blackwell, famoso purtroppo per i maltrattamenti fisici e psicologici esercitati sulle pazienti.
Nelly Bly scriverà un Reportage con lo scopo di rendere di dominio pubblico le cattiverie e gli abusi su donne che vivono in uno stato di debolezza e inferiorità psichica. Solo così l’opinione pubblica potrà avere la consapevolezza di un mondo di sommersi, invisibili, “trasparenti” e potrà alzare la propria voce, dichiararsi collettività offesa, unendosi in una coralità di accenti, gemiti sommessi, a una parte di umanità afflitta da isolamento sociale, sofferenza, profonda ferita. Solo così le cose potrebbero cambiare.
Scrive Emma Fenu nella recensione al libro sul sito cultura al femminile :
“Nelly affronta grandi difficoltà nel essere credibile: inganna medici e infermieri e sopporta torture fisiche e psicologiche. Ma non molla: vuole che la verità emerga e sia fatta giustizia”
E ancora:
” Molte donne che incontra come compagne, ritenute pazze e, diversamente da lei, senza possibilità di essere liberate, non sono meno sane di altri; sono spesso povere, sole, indifese, ribelli o vittime di ingiustizia. E quando soffrono di patologie mentali non traggono miglioramento da cure che sono violenze, non procedimenti terapeutici”.
E infatti, se poniamo la mente all’oggi, a ben pensarci il disagio mentale, “che colpisce in misura sempre maggiore le fasce più deboli della popolazione (donne, bambini e anziani)” molto spesso trova la sua causa nelle disuguaglianze, acuite dalle crisi economiche e peggiorate a causa della recente pandemia planetaria”.
“Molte donne che incontra come compagne, ritenute pazze e, diversamente da lei, senza possibilità di essere liberate, non sono meno sane di altri; sono spesso povere, sole, indifese, ribelli o vittime di ingiustizia. E quando soffrono di patologie mentali non traggono miglioramento da cure che sono violenze, non procedimenti terapeutici” ( Emma Fenu)
Sollecitata dal tema posto nel libro di Nelly Bly e dalle parole, accolte nel mio intimo sentire, leggendo la prefazione di Emma Fenu, oscillerò in questa breve dissertazione tra un passato e un presente, quest’ultimo soprattutto riferito allo stato delle cose in Italia.
“Donne sole, indifese, ribelli, vittime di ingiustizia”, scrive Emma.
Un tempo le donne che non accettavano le regole della società dell’epoca, donne che costituivano un problema per la famiglia e che, nella maggior parte dei casi, non avevano nessuna malattia mentale, venivano segregate nei manicomi, dette anche case di cura mentale.
Leggo da altra fonte “All’epoca l’immagine femminile era molto diversa da oggi. Nascere donna significava prima di tutto essere ubbidiente, docile, prolifica e materna. Chi aveva proprie idee, chi si ribellava, alla famiglia o al marito, veniva considerata pazza. Le ribelli, le mancine, le dislessiche, quelle che non accettavano le imposizioni del marito, quelle che si prostituivano, quelle che non volevano figli: sono tante le donne che finivano in manicomio solo per aver fatto una scelta controcorrente rispetto alla morale dell’epoca”.
I luoghi in cui venivano rinchiuse le pazienti erano affollatissimi, in moti casi strutture fatiscenti e promiscue. Lì si curava la “devianza”. Le donne erano definite “rotte e storte”, così veniva scritto nelle cartelle cliniche.
Lì dovevano “essere aggiustate”: psichiatra e medico “prendeva le misure e indicando le parti del corpo con una penna o delle chiavi”. Alle donne veniva presa la circonferenza del cranio, delle orecchie, del naso, delle braccia, delle spalle, del torace, dello scheletro e delle ossa. E la sentenza era solitamente che si trattava di donne “dall’indole degenerabile e patologica oppure eccessivamente emotiva”.
Poi venivano internate per 30 giorni, “al termine dei quali era iscritta al casellario giudiziario, un gesto che segnava la sua condanna definitiva”.
Negli ultimi anni gli studiosi appurato le indicibili torture a cui sono state sottoposte le donne rinchiuse nei manicomi. Elettroshock, per ridurre le pazienti a uno stato di docilità e arrendevolezza, bagni nell’acqua ghiacciata, lobotomie, incatenamento al letto o a termosifoni o finestre, “alla mercè di chiunque e preda di indicibili violenze”.
E oggi?
Un altro spunto di approfondimento su questo tema mi è dato dal sito Di Lei “Cosa succedeva alle donne quando venivano rinchiuse nei manicomi”
che “In Italia l’esperienza di Franco Basaglia sfociò nell’approvazione della legge n. 180 del 1978 che stabiliva l’abolizione del manicomio. Avvenne, quindi, la creazione di nuove strutture intermedie dislocate nel territorio, i centri di salute mentale, con funzione di consulenza, programmazione delle terapie, informazione e assistenza. Tale legge, inoltre, imponeva di effettuare i ricoveri volontari o obbligatori solo negli ospedali generali e affermava il principio di “continuità terapeutica”, con équipe incaricate di seguire il malato prima, durante e dopo eventuali ricoveri”.
Ma allora come oggi, ci sono donne che vivono in un contesto sociale sempre più diseguale (sociale, di reddito, di genere, di accesso all’istruzione e alle cure…) ; donne che avvertono un senso di insicurezza, di fragilità e di autostima; donne spesso vivono impoverite per l’assenza di una rete di sostegno con altre donne, o con donne di diversa estrazione sociale. Donne sole, donne che devono farsi carico delle emozioni, dei sentimenti non celati; farsi carico dei figli a tutto tondo, farsi carico della costruzione dell’amore; dei rapporti con le agenzie territoriali. Farsi carico dei fallimenti, delle sconfitte, delle parole che il compagno speso non sa dire o non vuol dire.
Oggi, e forse più di un tempo, la donna o stravince su questo sovraccarico di vita, o soccombe.
Leggendo un indagine dell’ Axa Mind Health Report 2023- Benessere mentale: Italia ultima in Europa, scopro che il maggior disagio mentale è a carico delle donne e dei giovani.
In particolare, le donne sono quelle che riferiscono uno stato peggiore rispetto agli uomini in tutte le fasce d’età, soprattutto a causa della disparità di genere avvertita nella vita quotidiana: “oltre il 40% delle donne ha visto mettere in dubbio le proprie capacità per via del gender, una su 3 ha ricevuto commenti indesiderati sul proprio genere”.
Mi piace terminare questa dissertazione con alcune riflessioni di Emma Fenu riferite al libro Dieci giorni in manicomio.
“Si ha l’impressione, nel corso della lettura, di procedere nell’inferno, più precisamente nella Nono cerchio della Divina Commedia, dove Lucifero tritesta macera nelle bocche i traditori, dove il Conte Ugolino morde il cranio dell’arcivescovo Ruggeri.
In manicomio fa freddo, si gela. Come nel lago di Cocito non ci sono stufe, nè coperte, nè vestiti pesanti e nella prassi ci sono le docce di acqua ghiacciata: uscire sani, senza un’affezione polmonare o un grave disagio mentale è impossibile.
Nessuna persona sana condannata ad attraversare l’inferno può rinascere a nuova vita, in ascensione.
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
Non c’è speranza di essere ascoltati senza saccenza e pregiudizio.
Non c’è speranza di essere compresi, accuditi e curati.
Non c’è speranza di essere nulla quando la follia ti stringe nel suo morso e la società ti vomita fuori”.