Questa storia è tratta da un romanzo di Maria Antonietta Vito.
Si tratta de «La ferita originaria» (Castelvecchi editore).
Amalia, uno dei personaggi principali, a causa della povertà sia economica che culturale in cui è nata e cresciuta, fin dall’età di 10 anni si rassegna alla la privazione di un diritto essenziale : il rispetto del proprio corpo e la possibilità di vivere esperienze autentiche d’amore. Dall’ambiente familiare, dal tipo di uomini che la circondano, si vede costretta ad accettare la prostituzione. Da principio, ha l’illusione di viverla come una scelta, come un atto di libertà; solo col tempo, col passare degli anni, comprende che «quella vita non era stata lei a sceglierla», le era stata imposta dalle circostanze, e l’aveva derubata del diritto all’innocenza. Dirà a se stessa : «Che fesseria, la libertà !». Ma quando resterà incinta, per ben tre volte, rifiuterà l’aborto, senza esitazioni, compiendo l’unico atto di libertà che la vita le consente in quel momento : diventare madre ed amare senza riserve i figli.
Vale davvero la pena leggere questo brano. Ancora una storia di donne lese nella loro dignità, nel proprio diritto a scegliere liberamente e consapevolmente la propria vita.
Come il corpo, senza ribellarsi, senza fare lo schizzinoso, s’era adattato a lasciarsi usare, così anche la mente, con un po’ di fatica in più, alla fine imparò come si fa ad entrare e uscire da certe storie d’amore, una più balorda dell’altra, senza ferirsi, o perlomeno, senza patirne più del necessario. Dopo ogni fallimento, non era più aggredita dalla malinconia. Riusciva a difendersene. Ma con gli anni una cosa le si fece chiara: non era vero che quella vita era stata lei a sceglierla. Era poco più d’una bambina, allora, cosa poteva saperne? Che fesseria, la libertà! E su un altro punto non aveva dubbi: bella o brutta che fosse, giusta o sbagliata, la vita era la sua. Altre non ne aveva: doveva giocarsela a muso duro. Anche perciò, i sentimenti, meglio tenerli sotto chiave.
Ne era passato di tempo da quella prima volta sul fienile, s’era fatto sempre più sottile il filo che teneva legata lei, adulta, sicura di sé, a quella bambina lì, lasciata sola, col sangue che le colava caldo tra le cosce ed era tutto un bruciore fino alla testa, fino ai capelli. Adesso, a quella creatura, preferiva non pensarci. Certi ricordi fanno solo male. Le cose che faceva, ora, sapeva perché le stava facendo; non le capitavano per caso, era lei a cercarle, e se ne serviva, sapeva ricavarci un utile. In un’altra vita, magari, avrebbe fatto cose diverse. Ma di vite ne aveva una sola. Perché farsene una croce? Perché provarne vergogna? Viverla e basta, coi vantaggi che poteva trarne. Se lo ripeteva di continuo, come il ritornello d’una canzone. Così, in meno di dieci anni, a poca distanza l’uno dall’altro, aveva messo al mondo i suoi tre figli. Maschi, sì, maschi pure loro. Sempre in mezzo ai maschi le toccava stare. Decisamente non era brava a scansarsele le gravidanze. Era più esperta su come li si fa i figli, che su come evitare di farli nascere. E non la turbava, non più di tanto, il fatto di non poterci mettere la mano sul fuoco su chi fosse il padre d’ognuno. Quelle vite le accettò all’istante, non appena seppe d’averle dentro. Non aspettò di sentire i primi calci in pancia. D’istinto pensò m’è capitato, sono miei, li voglio. Non la sfiorò la tentazione di liberarsene come facevano altre femmine, cresimate e maritate, che ci avevano fatto il callo a entrare di soppiatto in casa di Peppina la mammana. Lì bastava tirar fuori un mazzetto di banconote e ci pensava lei a evitare che la creatura vedesse di che stoffa è fatto il mondo. Non c’era donna in paese che ignorasse quell’indirizzo, anche se non tutte avevano bussato a quella porta. Alla prima gravidanza, una vicina con cui s’era confidata aveva insistito a portarcela a casa di Peppina. Le aveva assicurato che era cosa da niente, e ci si levava d’impiccio. Lei aveva scosso la testa, come se non capisse, come se quella scema si fosse messa a parlare una lingua straniera. Al secondo e al terzo figlio, in molti l’avevano guardata dall’alto in basso, più del solito, ma nessuno le aveva proposto soluzioni che ancora una volta avrebbe rifiutato. Quei ninnilli che le entravano nella pancia senza chiedere permesso, non appena li scodellava, cominciava a covarseli come una chioccia. Se stentavano a crescere o se spuntava fuori qualche magagna, anche minima, non si dava pace finché non li vedeva di nuovo in piena salute. Se solo si beccavano l’influenza e di notte li sentiva tossire, li tirava fuori dai loro letti e li portava nel suo. Fino al mattino, non chiudeva occhio, non smetteva un attimo di passargli la mano in fronte per controllare se la febbre fosse scesa o no. Il mistero della vita, per lei, lo si poteva riassumere tutto in quei due miracoli di cui era grata al cielo: sesso e maternità. Il resto, meno di niente, soprattutto da quando era diventata madre. Non contavano più neppure gli innamoramenti. Se ogni tanto se lo sentiva ancora addosso, un po’ di prurito sentimentale, s’era fatta perfettamente esperta di come farselo passare. E ci rideva sopra. Si prendeva in giro. Persino le malvagità sul suo conto la irritavano ancora, sì, a volte l’ intristivano, ma la ferivano sempre meno, ora che non era più solamente una puttana. Era una mamma di famiglia. Che vuoi di più? La sola donna da cui non s’era mai sentita condannare era Sofia, che la conosceva da quando era bambina. L’aveva vista crescere e diventare femmina troppo in fretta, se ne era preoccupata, avrebbe desiderato una vita tutta diversa per lei. Una donna così, una d’altri tempi, una che andava a prendersi la comunione tutte le domeniche, chissà quante volte doveva aver pensato che, a fare quella vita, Amalia si giocava la dignità, e anche la salute. Ma il cruccio per quei peccati, così lontani da lei, più che un atto d’accusa, era un dolore, uno di quei dolori di cui meno si parla e meglio è, perché giudicare è sbagliato. Quello che serve è solo una spalla su cui poggiare la testa quando si è afflitti. Così pensava la vecchia. Se capitava che lei e Amalia s’incontrassero per strada, senza tante smancerie, la fissava negli occhi e, quasi mangiandosi le parole, le diceva: «Figlia mia, ’o ssai, io cà stongo, si te necessita, me vieni tu a cercà!».