Di Ilaria Goffo
La voce di Ilaria arricchisce il blog per la varietà dei temi proposti e per la possibilità che offre a noi lettori di riflettere su temi di interesse universale, per aprire un dibattito, per sollecitare il pensiero a palesarsi in argomentazioni critiche.
Il nostro “Grazie”, quindi, ad Ilaria, da non molto entrata a fare parte delle collaboratrici del Cielo in una stanza.
“Io qui dentro ci vivo”
Aiutatemi a trovare la strada
C’è uno strano, intricato e semplice, allo stesso tempo, rapporto che lega una grande fetta di adolescenti e preadolescenti allo spazio del centro commerciale. Da quando esistono i centri commerciali, e negli ultimi anni sempre più, periodo Covid a parte, si vedono tanti ragazzini fuori e dentro a questi spazi.
Mi capita di andare per farmi la spesa e ammetto anche per comprarmi qualcosa, chi non lo fa, è vero, è comodo, talvolta pure divertente, ma non è un’ossessione, né ci trascorro la vita dentro. Prediligo il negozio di paese o città se ho il tempo di allungare la passeggiata ed è bello entri, compri quello che ti serve e poi ti ritrovi all’aria aperta e hai stimoli, vedi altro, osservi, ci sono suoni, colori, profumi diversi: la città/il paese offre più stimoli, ti fermi e leggi la locandina del cinema, incontri qualche amico, qualche conoscente, ti fermi a parlare, cosa che accade anche al centro commerciale, ma sei immerso in una dimensione, la chiamo io più viva, più reale, meno artificiale. Ci sono i pro e contro di entrambe, ma non è questo il punto su cui voglio soffermarmi. Sappiamo che la dimensione temporale influisce molto: se voglio fare più cose senza perdere tempo e devo entrare in più negozi, il centro commerciale risponde a questa esigenza spazio/temporale.
Risparmio di tempo e di spazio forse? Cammino meno e trovo tutto.
Il centro commerciale si chiama centro proprio perché dentro hai tutto in teoria e concentrato; facendo due passi hai tutti i negozi che ti servono e che soddisfano le esigenze di un potenziale cliente.
Ma il punto è perché gli adolescenti e i preadolescenti si concentrano qui? Il pomeriggio siedono sugli scalini, si ritrovano, siedono sui carrelli fuori della spesa, si fumano le prime sigarette: diventa il nuovo centro di ritrovo. Cosa fanno? Stanno lì, quello che mi fa paura è che restano, fermano il tempo lì, si guardano, giocano con i cellulari e poi? Costruiscono le loro relazioni in quel limite spaziale e riempiono il tempo fuori e dentro al centro commerciale. Di sicuro “piuttosto che siano per strada” dice la gente, meglio che siano al centro commerciale, ma non è questo il punto, perché comunque è uno spazio vigilato e controllato, vero, verissimo, ma come tutti gli spazi il controllo poi naturalmente sfugge. E se bisogna controllare qualcosa non va, giusto? Perché la parola “controllo” ha sempre diverse sfumature: è bello qualche volta perdere il controllo per ritrovare se stessi, ma se “controllare gli altri” vuol dire tenerli lontani dai pericoli, beh allora riflettiamo.
Consumismo temporale vorrei dire, il loro tempo passa, si consuma. Loro restano inermi a lasciarsi trascorrere il tempo addosso.
E torna la parola controllo, perché c’è bisogno di indicare loro la via, e non dovrebbe essere fatta con il controllo, vero, dovrebbe partire a monte offrendo loro delle possibilità, che invece a quanto pare non hanno e non scelgono. Manca la famiglia fatemelo dire, è così. Quello che costruiscono loro è un grande vuoto, che vedi e senti. Il punto è che i loro interessi si limitano a quello che succede lì, “vivono” realtà e stimoli insufficienti a crescere. Cosa possono progettare? Non è colpa del centro commerciale e della sua esistenza, sia ben chiaro, ma del fatto che loro scelgono quel posto come luogo dove stare, dove vivere il loro prezioso tempo che sfugge e va, senza tornare.
Attenzione non sono tutti gli adolescenti che si ritrovano qui, no, è una buona percentuale di ragazzi che prediligono questo spazio/luogo sociale per trovarsi e avere relazioni. Però questi ragazzi sono tanti, sono più di quello che dovrebbero essere.
Un ragazzo che conosco, figlio di vicini, mi saluta e mi dice: “Io qui ci vivo” e stava mangiando delle caramelle con una pepsi in mano.
Ho pensato molto alla sua frase “Io ci vivo”. Non so se era felice di dirlo o se fosse anche un po’ arrabbiato dentro, lo diceva con orgoglio, ma anche come dire “questo ho e qui faccio quello che voglio”. Non lo so, però di sicuro trascorrerci tanto tempo, tutti i giorni, fa riflettere. Come se fosse l’unico posto che può scegliere, come se fosse l’unico luogo dove può incontrare le persone che gli interessano limitando i suoi interessi a questo.
Cosa c’è dietro? Dietro a mio avviso, c’è una famiglia che non lo stimola, con chissà quali problematiche, con chissà quali difficoltà e non stiamo qui ad additare nessuno, ma cosa offriamo a questi ragazzi?
Ho lavorato in passato come educatore di strada e sì, non è facile, ma si riesce a fare, si riesce ad offrire qualcosa in più a questi ragazzi, gli spazi andrebbero ripensati, offrire altre possibilità a chi non le ha, si può secondo voi? Ripensiamo all’offerta: cosa offriamo loro? Si investe nel sociale? Bisogna creare degli spazi in cui loro possano entrare e provare a sentirsi a casa, magari poi ci vanno una volta a settimana lamentandosi e dicendo che “fa schifo”, ma almeno tentare di creare qualcosa. Investiamo nel sociale, vi prego, investiamo, il mio è un urlo di rabbia, perché stiamo perdendo una fetta di giovani, che non sanno dove andare.
La scuola da sola non può farcela, ci vuole una rete, e quella rete che può salvarli, laddove manca la famiglia, può venire da scelte governative, da investimenti, creiamo qualcosa che attiri questi ragazzi, paghiamo le persone, i professionisti che li seguono, e che non sia sempre e solo volontariato, basta! Valorizziamo le professioni! Incoraggiamo la rete di salvataggio: davvero ve lo dico li stiamo perdendo, e questa generazione, questa fetta di ragazzi che si muove come un automa con il cellulare in mano e le cuffie in testa al mattino, si accalcano alle fermate degli autobus, cosa pensano? Diamo loro qualcosa in più di un tempo smarrito, perché da quel tempo smarrito ci si può solo perdere e non ritrovare, e sapete meglio di me che poi è una strada senza ritorno.