8 marzo di riflessione anche per i giorni a venire
Di Marina Agostinacchio
Desidero aprire questo mercoledì, “Giornata internazionale della donna” (Woman’s Day) dedicando lo spazio “Diritti e società” a una poesia di Warsan Shire, poetessa britannica di origine somala.
La poesia Home di Warsan Shire assurge a simbolo di tutte le migrazioni; non si tratta di una preghiera funebre quanto piuttosto di un’occasione per riflettere tutte e tutti insieme.
In queste settimane nelle scuole in cui vengo chiamata per svolgere con i ragazzi delle classi superiori attività di scrittura, non c’è mai un insegnante che non mi chieda un percorso sui migranti.
Proprio ieri, in una seconda superiore, siamo partiti da due testi poetici di Erri De Luca: SOLO ANDATA, SEI VOCI.
Il focus dei discorsi, con gli alunni delle classi e che preludono la lettura delle poesie, è un video sull’argomento, seguito da un power-point che al suo interno presenta immagini e parole sia dell’autore che altre ad esse associate. La domanda spesso è questa: “Perché i popoli si spostano se poi il viaggio spesso ha come epilogo la morte?”
Ebbene, lascio la parola a Warsan Shire.
Dal libro che raccoglie i versi degli ultimi dieci anni, dal titolo: “Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa”, traduzione di Paola Splendore- editore Fandango Libri, ecco la poesia dedicata a tutti noi.
Nessuno lascia casa a meno che
la casa non sia la bocca di uno squalo.
(…)
dovete capire
che nessuno mette i suoi figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra
(…)
a casa ci voglio tornare,
ma casa mia sono le mandibole di uno squalo
casa mia è la canna di un fucile
e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa
a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda
affretta il passo
lasciati i panni dietro
striscia nel deserto
sguazza negli oceani
annega
salvati
fatti fame
chiedi l’elemosina
dimentica la tua dignità
è più importante che tu sopravviva
nessuno se ne va via da casa finché la casa è una voce
soffocante
che gli mormora all’orecchio
vattene
scappa lontano adesso
non so più quello che sono
so solo che qualsiasi altro posto
è più sicuro di qua.
In molte parti del mondo questa ricorrenza viene celebrata con festeggiamenti, auguri, messaggi inoltrati, mazzi di mimose…, dimenticando la grande manifestazione delle donne, organizzata a San Pietroburgo, per ottenere il diritto di voto.
La Giornata internazionale della donna ha avuto riconoscimento dal 1977, quando le Nazioni Unite l’ hanno ufficializzata.
A tal proposito, lascio due link, inviati dall’amica, artista della fotografia Nerina Garofalo, (Formatrice, coach e narrative thinker, si occupa nella consulenza alle imprese di social learning, community management e comunicazione)
Buon 8 marzo, scrive Nerina, attraverso due importanti riflessioni.
Non sono io la scena del crimine
Donne migranti, ma anche donne che subiscono violenza, donne che hanno sulle proprie spalle il peso di un lavoro duro, donne che vivono nell’oblio, donne ricattate al lavoro, tra le mura domestiche… donne della cui esistenza non ci accorgiamo neppure. Donne ancora considerate a un livello più basso quando si tratta di lavoro, carriera. Donne depositate tra le pagine di storia e dimenticate o di cui non si legge perché ritenute appartenere alla consacrazione di un dio minore. Donne che vivono in villaggi sperduti della terra, nomadi, e pensate come parte di una storia folkloristica.
Ho letto, questa mattina la pubblicazione della lettera di Natalia Ginzburg, pubblicata nel 1948 sulla rivista “Mercurio” diretta da Alba De Cespedes.
Si tratta di una lettera aperta a tutto il genere femminile.
Leggendola, ho pensato che questa della Ginzburg è la donna ripresa nei suoi atti di vita giornalieri, nei momenti delle sue battaglie. Ma tutte hanno la tendenza a “cadere nel pozzo”.
Riprendo dalla lettera questo passo:
“Ho conosciuto donne che si trovano molto brutte e donne che si trovano molto belle, donne che riescono a girare i paesi e donne che non ci riescono, donne che hanno mal di testa ogni tanto e donne che non hanno mai mal di testa, donne che hanno tanti bei fazzoletti e donne che non hanno mai fazzoletti o se li hanno li perdono, donne che hanno paura d’essere troppo grasse e donne che hanno paura d’essere troppo magre, donne che zappano tutto il giorno in un campo e donne che spezzano la legna sul ginocchio e accendono il fuoco e fanno la polenta e cullano il bambino e lo allattano e donne che s’annoiano a morte e frequentano corsi di storia delle religioni e donne che s’annoiano a morte e portano il cane a passeggio e donne che s’annoiano a morte e tormentano chi hanno sottomano, e donne che escono il mattino con le mani viola dal freddo e una sciarpetta intorno al collo e donne che escono al mattino muovendo il sedere e specchiandosi nelle vetrine e donne che hanno perso l’impiego e si siedono a mangiare un panino su una panchina del giardino della stazione e donne che sono state piantate da un uomo e si siedono su una panchina del giardino della stazione e s’incipriano un po’ la faccia.
Ho conosciuto moltissime donne, e adesso sono certa di trovare in loro dopo un poco qualcosa che è degno di commiserazione, un guaio tenuto più o meno segreto, più o meno grosso: la tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata che gli uomini non conoscono forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare se stessi e a identificarsi con lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi. Le donne incominciano nell’adolescenza a soffrire e a piangere in segreto nelle loro stanze, piangono per via del loro naso o della loro bocca o di qualche parte del loro corpo che trovano che non va bene , o piangono perché pensano che nessuno le amerà mai o piangono perché hanno paura di essere stupide o perché hanno pochi vestiti; queste sono le ragioni che danno a loro stesse ma sono in fondo solo dei pretesti e in verità piangono perché sono cascate nel pozzo e capiscono che ci cascheranno spesso nella loro vita e questo renderà loro difficile combinare qualcosa di serio”.
Era il 1948.
Ma è davvero cambiata poi la donna nel tempo?
Sono certa che molta strada è stata fatta, anche perché la società è mutata parecchio dagli anni della ricostruzione post bellica. Tuttavia penso alla donna forte, coraggiosa, alla donna che mostra di sé sicurezza e cattiveria, spesso per mascherare le proprie emozioni, le incertezze, le paure; questa donna ha saputo far memoria di come le cose sono andate e possono andare ai nostri giorni, di come cedere all’istinto dell’abbandono produca esclusione, indifferenza, se non sentimenti di avversione.
Augurandovi un buon pomeriggio, vi lascio, care amiche e cari amici, con un testo del 2002, pensato, leggendo una poesia cinese in traduzione, e calato nella realtà che avevo intorno.
(Leggendo 19 vecchi poemetti cinesi…)
19 vecchi poemetti verso la porta dell’est.
Verso levante il lamento delle amanti senza nome,
neppure le gru celesti unendo i dorsi
lasciavano passare le parole, oltre gli sguardi.
Ha un esercito di stelle il cielo d’ogni tempo,
da oriente a occidente trapassano dinastie.
Bisognava leggere dei sogni infranti
in acque bianche di luna e d’anni a centinaia
per capire l’amaro di Mariangela
in volo tra il suono della campanella e casa,
sul carro polare delle costellazioni.
Le solitudini si credono ordite dalle guerre,
come nei canti della dinastia “dei Han”,
ma oggi quanti secoli conto sulle bianche dita,
un dolore per volta; scusa, mio uomo,
se prendo ad esempio quello di una donna.
Mia madre fu nel suo letto sola,
un ponte di parole sulla via lattea
a transitarla, lievi.
A giorno appena alto ruota la nuca
l’amica disperata nella sua follia,
e lenta cerca, cerca…
La mia vicina beve, ma il suo abbandono
non fa rumore ed il monologo è sommesso,
leggero peso di un po’ di schiuma sopra i piatti.
Lei, quella del terzo piano, sa ancora amare,
sfidare le parole, lei senza più un cielo in casa,
senza più segni d’interpunzione.
Camminano sul lenzuolo umide di notte
le donne coraggiose, a qualunque costo.
Un po’ alla volta in me si aprono inflorescenze,
nell’ossuto torace.