Katty Soraya Resplandor: pochi tratti per delineare un patchwork di vita non tanto dettagliato, come dovrebbe, ma sufficiente per dare una immagine mentale di questa mia vita errante, anche approssimativamente.
Sono nata in uno dei cosiddetti Pueblos del Sur, precisamente a Mucuchachi, (Mérida, Venezuela) in una cittadina di indiani. Non sono cresciuta in questo paesino. La partenza di mia madre verso le sponde del lago di Maracaibo (Zulia, Venezuela) lo ha reso impossibile. Crescendo l’ho visitato solo una volta ed è bastato perché si staccasse un pezzettino del mio cuore. Lì è rimasto, nella sua piazzetta, nel suo fiume, nelle sue case in stile coloniale. Lì, nel dispensario del villaggio, ho potuto vedere per la prima volta com’era dare alla luce un bambino; ho sentito la danza delle urla che non si possono contenere; il sudore dimenticato che nessuno vede; le preghiere che non si ascoltano ma che sono speranza e finalmente un momento indimenticabile di forbici, placenta, lacrime nuove…
Il mio soggiorno, fino all’età di sei anni, in un piccolo paese agricolo e di pescatori situato sulle sponde sud-orientali del lago di Maracaibo, chiamato San Antonio del Heras, è un taccuino sfocato con lettere appena visibili incapaci di cedere al tempo. Ricordo alcuni frammenti: una bambola parlante che ho rotto per scoprire perché parlava, con la conseguenza di essere picchiata (poiché a quei tempi la psicologia positiva nella fase infantile era una materia nebulosa). Ricordo anche le feste di compleanno dei miei piccoli amici; la mia prima scuola; le dolci fritti chiamati “mandoca”; il mio vestitino di guajira; la prima amica del cuore; la casa dove vivevo.
Quella fase è finita quando mi hanno portata con mia nonna. Mia madre con il suo lavoro e lo studio non poteva più tenermi con sé. Quell’epoca ha stampato nella mia memoria: i balli della scuola; i bambini che mi chiedevano perché parlassi con un accento diverso (accento che ho perso col tempo). A sette anni bevevo ancora il mio biberon prima di andare a dormire e avevo una morbida coperta come compagna del mio banchetto quotidiano. Devo anche confessare che soffrivo di pediculosi, peste questa ripetuta durante quasi ogni anno scolastico. Il mio medico di base, cioè mia nonna, usava una medicina un po’ discutibile: il kerosene, detersivo in polvere per i vestiti e un pettine nero molto sottile. Quell’odore accompagna ancora i miei incubi.
L’istruzione primaria è stata una agenda di giochi: i pranzi alla mensa scolastica, i miei primi amici; le mie prime recite in teatro; camminare tredici isolati per arrivare a scuola e poi alle medie. Nelle città dello stato di Monagas a quel tempo l’autobus non esisteva. Mia nonna (vedova capofamiglia di nove figli) non sognava nemmeno un’auto, non avevamo soldi per il trasporto scolastico. Quindi camminare era obbligatorio.
Il diploma di maturità è un patchwork molto colorato: Studiare; distinguersi; le strade nel mondo delle relazioni sentimentali; i primi inviti per andare al cinema; le prime farfalle che danzano nello stomaco; gli aspiranti fidanzati; le prime uscite in discoteca o le feste di paese con gli amici; l’illusione della festa dei quindici anni (evento molto importante nella cultura latinoamericana).
Il college presso l’università pubblica è diventato una maratona senza fine. Questa fase è stata caratterizzata da diversi scioperi del personale docente. Mi ha insegnato cosa significa il mondo del lavoro. Ho iniziato come trascrittore di tesi, segretaria, assistente alle risorse umane, operatrice di help desk in banca,
Dopo il college, il mio primo lavoro formale nel settore IT è stato presso una società di esplorazione mineraria situata nello stato di Bolívar. Grazie ad un regalo indimenticabile, ho potuto sorvolare in elicottero alcuni punti dell’Amazzonia dove ho appurato quanto l’uomo possa essere predatore e avido nella ricerca della ricchezza: foreste sanguinanti; terreni cancrenosi e doloranti; i crateri sembravano bocche aperte che gridavano aiuto. Uno spettacolo da brividi.
Persino il mio lavoro successivo è stato una scuola di vita. La PDVSA (Petróleos de Venezuela, S.A) del 2000 era una comunità a sé. Anche se lavoravo per una joint venture associata alla principale compagnia petrolifera venezuelana, facevamo parte di un circolo privilegiato di lavoratori: formazione continua; ottimi colleghi professionisti; lavoro dinamico; il complesso era un insieme di belle strutture; mensa; medico in sede. Tutto ciò si è concluso con i massicci licenziamenti dopo lo sciopero petrolifero del 2002.
Dopo di che, la vita mi ha portato in Italia. Mia sorella viveva già qui e così ho iniziato a frequentare un corso d’italiano per un anno. Quando ero decisa a tornare nel mio paese, ho conosciuto un bel ragazzo che, dopo un mese che ci frequentavamo, mi ha chiesto di sposarlo. Dopo due anni, tra carte, nulla osta e burocrazia (anche qualche lacrima dovuta alla disperazione dell’invisibilità legale) questa nazione è diventata la mia casa.
Qui ho ricominciato a scrivere poesie grazie alla richiesta del parroco del paese che è passato a casa mia e mi ha fatto la proposta di presentarmi ad un incontro culturale per stranieri. E da allora la mia penna scorre a volte stanca, a volte svenuta ma non si ferma.
Oggi come oggi posso dire come nella milonga di Facundo Cabral “…Non sono di qui, né di là / ed essere felice è il mio colore d’identità…”
Ecco la mia prima poesia in terre italiane:
Io straniera
Cerco l’inizio su questa terra
Generosa mi regala l’amore
Ho trovato lo splendore
Per me straniera
Non sarà più lo stesso
Qui mi devo fermare
Sarà un nuovo ricominciare
Dono a questa nazione
La mia anima, il mio sudore
Mio figlio, il mio sangue
Non sono più la donna che piange
Passerà il tempo
Lento, lento, lento
Qui sarò ancora straniera
Sul mio suolo…anche lì forestiera
Ma ho due cuori, due amori
Questa regione e la mia nazione