A proposito di “Adolescence”
Nerina Garofalo
A proposito di “Adolescence”
La serie Adolescence, assai recensita e in onda adesso su Netflix, ha molti elementi capaci di renderla preziosa, e merita di non essere interpretata alla luce della solitudine adolescenziale e della distrazione adulta. In realtà, i temi e i personaggi in gioco dicono molto più di questo. La trama, essenziale, propone un episodio di violenza estrema (un delitto compiuto da un adolescente 13enne) derivato diretto di tante forme di ordinaria violenza non contenuta e mal riconosciuta nella scuola, nella famiglia, nella comunità dei pari. Quale sia il delitto e chi ne sia responsabile emerge subito, e l’apparente dramma “crime” diventa ben presto secondario a un dramma psicologico a più voci, sebbene sia il tema della relazione padre figlio a tener tesa la trama e a vivere il maggior respiro. Intorno però, le forme istituzionali (la scuola, i commissariati, l’assistenza pubblica legale e sociale, il carcere minorile) sono delineati con grandissima cura nella loro complessa rete di anaffettività e violenza, di appiattimento nei ruoli e di incertezza esistenziale nei ruoli stessi che vediamo in ciascun attore sulla scena del dramma. Nessun personaggio è privo di “domande” fatte a se stessi prima che all’altro. Anzi, forse, nel silenzio verso l’altro. I due poliziotti, uno dei quali mette in gioco la relazione con il figlio, non delinea forme più risolte di comunicazione da quelle espresse nel rapporto fra il giovanissimo protagonista e suo padre. La psicologa che entra in connessione per prima con la rabbia (oltre alla vittima), definisce molto chiaramente il perimetro invalicabile delle relazioni, l’ecosistema individuale, nel quale ognuno in grande solitudine e disperata ricerca di contatto si sente immerso nel proprio vivere, e che rimane, a conti fatti, né condiviso né comunicato. Le reti amicali dei ragazzi appaiono monche e dolenti, così come la coppia genitoriale, e il nucleo familiare, oscillano fra un disperante bisogno di affermazione di affetto e cura e le ferite, non risolte davvero, di ciascuno e ciascuna. Raramente una serie televisiva raggiunge questo apice di complessità rappresentato e “restituito” con l’ausilio di una trama dicharata già tutta nella prima ora di riprese. E il finale, che qui non cito, è la conferma di come ogni percorso alla fine venga fatto da soli, la via di pace trovata da soli, ma splendidamente consegnata al dialogo dalle scene finali in cui ricompare, nella quarta puntata, la voce del protagonista. E’’ una serie da non perdere, e da non sottovalutare per l’impatto emotivo che sa avere su ognun* di noi. L’alternanza fra solitudine e legame, e nascondimento e disvelamento, fra affetto e frattura e fra desiderio e paura è tutta lì, consegnata e riflessa nella giornata in furgone trascorsa dalla famiglia del ragazzo ad un mese dal processo. Avere cura, non poter curare e voler sopravvivere, ed anche vivere, sono tutti lì. Come sentimenti definitivi di un oggi deprivato da una gioia vera e profonda di vivere. E far vivere.
Eppure, tutto questo, con una nostalgia struggente, che la relazione padre figlio porta dentro e ci consegna.