ULTIMA GITA A ROVIGNO (Bruno Trevellin)
In giro per la città, in giro per il mondo
E’, questo che vi propongo, un racconto di colori, memoria, scoperta. Il lettore che si appresta a leggere troverà un “già vissuto” ,se anche non avesse visto la perla – Rovigno.
Buona lettura!
ULTIMA GITA A ROVIGNO
Di Bruno Trevellin
L’ultima gita insieme l’abbiamo fatta a Rovigno: io, mia moglie, mia madre e lui. Era un fine settimana di aprile e lì la stagione era già avanzata. Si poteva girare in giacca lungo il porto e salire per le calli fin su a Sant’Eufemia riparandosi dal sole splendente all’ombra delle case.
Arrivammo intorno a mezzogiorno, dopo quattro ore di auto. Io conoscevo bene la strada, perché ci ero stato altre volte. Durante il viaggio se ne stette accanto a me, davanti. Avevo una Golf bianca che spingevo fino a centosettanta all’ora, beccandomi i rimproveri di mia madre, ma non di lui, che non sembrava temere la velocità. Lungo il percorso fumò le sue sigarette, ma senza esagerare. Entrati in Istria non feci la strada interna, ma la litoranea, un po’ più frequentata, ma sicuramente preferibile.
Lì è un altro Adriatico rispetto al nostro in Veneto. Il Carso digrada con le sue rocce, con i suoi speroni, con la sua macchia fin dentro al mare e si lascia battere di continuo dalle onde.
Rovigno è già bella arrivandovi dall’entroterra. La collina del centro storico, già isola, che si innalza quasi a sostegno del campanile veneziano e le vecchie case che si sormontano, danno all’orizzonte un profilo rasserenante.
Anche lui guardava stupito la cittadina che spariva e riappariva con l’andamento della strada. Parcheggiammo lungo il porto e alloggiammo nell’hotel che dà sulla piazza centrale. Eseguiva tutto ciò che stabilivo. Potevo decidere io ogni cosa, ogni spostamento, ogni orario, ogni ordinazione al bar. I nostri ruoli si erano definitivamente invertiti. La sua età e la malattia che covava dentro mi avevano lasciato libero tutto il campo e lui docilmente si stava rassegnando alla nuova parte. Il suo tempo era inesorabilmente finito e iniziava il mio, da lui accettato e condiviso. Se gli ordinavo di non accendersi l’ennesima sigaretta, si spazientiva, ma rinunciava; se gli facevo osservare che aveva già bevuto un bicchiere di malvasia, non se ne versava dell’altro, aspettando che lo facessi io.
Salire dalla piazza a Sant’Eufemia è una passeggiata di un quarto d’ora che si fa piacevolmente in aprile, ma lui faticava; si fermava e riprendeva di continuo il passo, restandosene a venti, trenta metri da me, lasciandomi avanzare con la mia andatura eccitata e regolare. Su tirava una brezza leggera che lo ristorò. Si asciugò con il fazzoletto il sudore che gli grondava dalla fronte e dal collo e se ne stette per alcuni attimi appoggiato al muretto del sagrato a guardare il mare. Azzurro, blu, verde: erano colori che non aveva mai visto. Ma era quella brezza e quel suo sapore salino che lo rasserenava. Entrammo in chiesa e ci sedemmo su una panca a metà navata. Una guida narrava a un gruppetto di turisti italiani la leggenda di sant’Eufemia e lui l’ascoltava attento come ha sempre fatto per poi potere a sua volta raccontare ad altri le sue nuove conoscenze. Quindi uscimmo e ritornammo giù in centro. Ci fermammo a prendere qualcosa, seduti fuori a un bar. Ordinò una birra fresca. Mi impressionò il tremito della mano che accompagnava alle labbra il bicchiere.
– Hai visto come trema? – feci a mia madre.
– E’ da un bel po’ di tempo che ce l’ha – mi rispose lei.
Fino ad allora non mi ero mai accorto di niente e ciò mi amareggiò: perché non riuscivo a vedere questi cambiamenti?
Mi ero portato la videocamera e lo riprendevo in tutto. C’erano una luce stupenda e dei colori incredibili, bellissimi.
Prima di andare a pranzo ci fermammo in un negozio di oggetti in filigrana. Insistette per comprare una collana a mia madre. Fu l’ultimo regalo che le fece.