Cleopatra
Sabato Monologo!
Oggi vi presento il primo di una serie di monologhi, tratti da “A dimora le rose”-
Storie di donne infedeli al destino, di Antonella Rizzo (edizionicroce). Interessante quanto scrive nella prefazione del libro Francesca Bellino sul ruolo della donna, narratrice di storie, rivelazioni di sé , voce che è suono per affermare la propria esistenza, espressione di relazione, dono che si offre in una coralità di ascolto. “L’autrice riporta alla
luce cinque storie esemplari di donne nate in epoche e
contesti diversi e dà loro Voce, facendoci udire il suono
del loro più profondo sentire in poemetti teatrali in forma di monologo…” (Francesca Bellino)
“Vi racconto della mia morte
affinché possiate capire
che la gloria di una regina
è misera cosa rispetto all’Amore
Sto impazzendo.
So che il veleno continuo era
solo brace per nutrire un amore destinato
a finire come tutte le cose del mondo”.
Quei rami di cuore
avviluppati in tondo
serrati a proteggere
lembi di vita
costringeranno il nato
a non chiedermi giorni
ma stracci di pazienza
a contenere il fuoco.
Avrò gesti lascivi
dolci ricompense
e al battesimo dei sensi
affogheremo insieme
nudi come anime.
Così replicai qualche giorno dopo la morte di Cesare.
Quell’uomo era diventato la mia ossessione per
come era entrato con prepotenza nel mio immaginario e vi aveva piantato le sue tende da accampamento
militare. L’odore del cardamomo e delle ghiandole dei
piccoli animali contenuti nell’unguento che la schiava
greca spalmava sulla mia schiena faceva il resto. Pensavo a quelle amenità che avrebbero raccontato sul mio
conto, latte d’asina, carbone per gli occhi e altre cose
del genere e ridevo come una pazza. Creusa rideva all’eco della mia allegria e sapeva di essere serva per volere
degli Dèi e non degli uomini. Avevo fame di sapere e
volevo impadronirmi dei segreti dell’astrologia e della
fertilità delle mie terre, e Creusa divideva con me le
stesse passioni.
Sapevamo che Cesare parlava di caccia con Diana e di
guerra con Marte e che lo scibile umano gli interessava
fino alla lunghezza del suo equipaggiamento bellico. Ma
la forma della sua testa era così maschile e le mani così
nodose come una quercia mediterranea che al confronto i nerboruti schiavi d’Etiopia parevano vecchi eunuchi. Non avrei mai patito la solitudine e la mancanza di
sentimento perché Io ero l’amore e sapevo suggere polline da fiori sconosciuti e misteriosi. Amavo scommettere sulle probabilità del destino e con grazia scivolavo
nelle passioni quasi imponendomi la sorte.
A quei tempi odiavo mio fratello-marito, e mai avrei
concesso la mia grazia a quell’essere insulso e vigliacco.
Regnava al mio fianco il parassita. Avevo pietà per la
mia schiava aristocratica e non per quel sangue sporco
di sozzura immonda.
Voleva uccidermi, lo so, e regnare tre giorni come
un muflone ubriaco ma io avrei imposto il seme di mio
padre nella storia d’Egitto e mai quello delle sue cortigiane.
Usare sottilmente il corpo era un’abilità che mi era
stata concessa dagli Dèi in cambio della mia sapienza
che avevo votato alla causa del mio popolo ma un particolare avrebbe inquinato la storia.
Io amavo come un condannato ama il Sole al momento della sentenza che lo grazia, e niente poteva avversare una natura decisa dagli Dèi.
Ricordo come se fosse adesso il nostro incontro. Ero
partita con quello stratagemma per arrivare a lui. Volevo stupirlo, lasciargli un ricordo indelebile. Una Regina
come me che si fa piccola e vulnerabile per innalzare la
sua potenza… ma dietro di me veglia Iside, eterna Madre, e splende la mia bellezza. È per opera sua che sono
andata a lui e a lui sono rimasta legata. Quella notte di
venti caldi la mia flotta approdò nella mia Alessandria
e l’inganno di cui mi ero servita cadde al suo cospetto,
lentamente.
Amavo il lusso forse più del potere e non andai candidamente spoglia.
La pelle sapeva di sale mischiato a essenza di bergamotto, incenso e legni pregiati. Un effluvio pregiato ricopriva la mia veste annodata sui fianchi alla maniera di
Iside e i capelli color palissandro. Avevo i piedi piccoli e
con le dita regolari avvolti in sandali che comprimevano
leggermente il flusso delle vene, evidenziandole in grappoli sensuali. Lui amava i piedi e il mio collo, la vista del
sangue che pulsava gli dava il senso della preda.
Le donne di Roma non avevano il colore della mia
pelle. Sfido Cornelia, Giulia o tutte le altre a mostrare
una schiena ambrata come la mia, sapientemente valorizzata dai drappeggi della tunica.
Ma quello che rese vulnerabile quell’uomo avvezzo
alle vittorie su eserciti e donne fu il sorriso accennato,
lo sguardo dritto e fiero e il fiume lento di parole che
sgorgavano da una mente lucida e raffinata.
Non credeva che una donna potesse produrre un tale
effetto, e mai nessuna aveva osato discorrere con lui di
cose che non fossero il compiacersi schivo dell’amplesso e sciocchezze simili.
In realtà ero stata una bambina né bella né troppo
brillante ma una testa ispirata e soprannaturale come la
mia avrebbe compensato tali carenze. Non avevo arti
lunghi né ciglia lunghe ma gli occhi bistrati ad arte e
quei particolari eleganti e originali mi fecero diventare
una delle donne più desiderate della stirpe dei Tolomei