L’ ATTESA
Di Ines Guadagnini
Questa mattina ha smesso di piovere, ma un cielo grigio carico d’ acqua stagna ancora sui tetti e sulle strade bagnate. Fino a ieri infatti la pioggia ha martellato ogni angolo della città, con un picchiettio fastidioso e insistente e solo verso sera si è stemperata in una miriade di goccioline, che hanno continuato a rimbalzare come piccole scintille sull’ asfalto, sotto le luci accese.
E’ presto quando esco di casa. Istintivamente faccio piano, perchè avverto un non so che di furtivo non nei miei gesti, del tutto leciti e quotidianamente banali, ma nei miei pensieri. Mi assale un bisogno profondo di ristoro, di pausa e so che a questo sto dando soddisfazione. Esco, vado in centro, mi allontano dalla mia casa per mettere fra me e la mia vita uno spazio temporale e fisico che mi protegga dall’ inquietudine di un’attesa.
Mi avvio a piedi lungo la strada che costeggia il canale, mentre una sferzata di vento gelido mi aggredisce la faccia. Attraverso i giardini comunali e qui rallento perchè piccoli crocchi di badanti straniere attirano la mia attenzione: sono rumene o ucraine che parlano fra loro una lingua a me sconosciuta. Provo, nel sentirle, un pensiero di estraneità, di lontananza anche se la musicalità di quelle voci mi è ormai familiare da tempo. Mentre mi avvicino a queste donne dalla corporatura massiccia e dall’ età indefinibile, mi concedo uno sguardo prolungato. Voglio scoprire nei loro gesti, nell’ alternanza delle loro voci, il residuo di una nostalgia, l’impalpabile consistenza dei ricordi della loro terra che ora, forse, temono trascurata senza il loro vivere lì. Le immagino con pensieri pieni di tenerezza per i figli lontani, affidati alle mani callose di nonni sfiancati da una vita di sacrifici, ma pur sempre amorevoli. So che anche loro sono in attesa… di un lavoro, di un amore, di un ritorno… poi una risata risuona nell’ aria e capisco che la vita, ancora una volta, corre in soccorso di chi non si arrende.
Cammino verso il centro, di cui avverto un’intimità simile al calore familiare: provo un profondo senso di appartenenza a questa varia umanità che si muove apparentemente isolata, ma che in realtà emana uno stesso respiro, nato dallo stesso cuore pulsante.
Non resisto alle luci e agli specchi di un grande magazzino: entro, giro in lungo e in largo fra i diversi reparti come estremo atto di libertà; non voglio pensare a niente che non sia piacevole, ma l’ansia dell’attesa è in agguato e tenta più volte di aggredirmi alla gola. La ricaccio lontano con forza, non le devo dare spazio e possibilità di gioco.
Quando esco il vento si è un po’ calmato.
Procedo e finalmente ecco la piazza con le sue bancarelle: ascolto le voci che si alternano, si accavallano, si intrecciano in discorsi spezzati, perchè è un attimo e le parole sono già lontane, perse nell’ aria di questo tempo sospeso fra cielo e terra. Apparentemente interessata a ciò che mi circonda, resto in realtà appesa ad un unico filo sottile, l’ultimo, prima di staccarmi da tutto, vinta dalla forza distruttiva di quest’ ansia che mi divora.
Fra un po’ dovrò tornare a casa e lì saprò, il tempo sta per finire. Per questo mi concedo una breve sosta per un caffè e così mi siedo al tavolo di un bar.
Mi guardo intorno e mi accorgo che anche altri aspettano: due colombi volteggiano ad ali spiegate in attesa di becchettare le briciole sui tavolini; un ragazzo appoggiato alla colonna del portico attende di vendere accendini ai passanti. Mi si avvicina quel ragazzo, lui così diverso da me e io così diversa da lui. Mi offre la sua merce.
“ Da dove vieni ? “ gli chiedo
“ Dalla Nigeria”
“ E cosa ti ha portato qui ? “
Che domanda retorica la mia !
“ Il desiderio di una vita migliore – mi risponde- Spero di poter tornare in Nigeria appena avrò abbastanza soldi. Per adesso devo aspettare, anche se non è facile l’ attesa “
Gli propongo di sedersi, gli offro un caffè, lo beviamo in silenzio poi gli racconto che anch’ io sto aspettando qualcosa …
“ Cosa puoi mai aspettare tu che hai tutto ! “ mi chiede stupito
“ Ognuno di noi attende qualcosa…” rispondo, con il timore di sembrare banale.
Annuisce e mi ringrazia per quell’ invito inaspettato che lo ha reso felice.
Lo guardo negli occhi con deliberata intensità, sento che potrebbe insegnarmi una diversa arte della vita. Mi chiedo quali siano i pensieri che lo traghettano ogni notte verso il suo sonno profondo di ragazzo: forse l’ immagine del suo villaggio con i pescatori sulle rive del Niger e i tramonti lungo le spiagge bagnate dalle piogge estive? O il ricordo del coraggio disperato di vivere nella periferia popolosa e abbandonata di una grande città ? Il desiderio di tornare fra la sua gente, o piuttosto la speranza di una vita migliore, non importa dove, pur di sentirsi finalmente parte di un’ umanità che lo accoglie ?
Intanto il tempo della mia attesa sta per compiersi e fra poco si potrebbe svelare nella conferma di un presagio temuto.
Mentre riprendo la strada di casa, sento artigli voraci volteggiare sopra di me pronti ad attaccarmi, ma so che oserò vivere e non mi vinceranno. I miei pugni, ancora stretti nella morsa della paura, si stanno pian piano aprendo, perchè “ io ho bisogno di credere che qualcosa di straordinario sia possibile “.
Per me e per tutti quelli che come me non si arrendono.